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RIESCO A FARMI PAGARE PER QUELLO CHE VALGO?

A causa del budget limitato, il fee che possiamo corrisponderLe è…”. A cui segue un valore nettamente inferiore a quello che l’impegno meriterebbe.

Chi non ha mai ricevuto una e-mail (o una proposta) di questo tipo?

Cosa fai? Accetti o rifiuti?

Spesso, si accetta. Raccontandosi “quello specifico progetto mi servirà per fare esperienza, guadagnare qualcosa (meno è meglio di niente), e comunque mi farò pagare di più la prossima volta…”.

Purtroppo, essere un libero professionista non è facile e talvolta scendere a compromessi può avere i suoi vantaggi. Ma non li ha se accettare compensi ridotti è legato al fatto che non ci apprezziamo a sufficienza da chiedere ciò che noi e il nostro lavoro meritano.

Dietro scelte economicamente poco vantaggiose si possono celare alcuni miti che abbiamo su noi stessi quando si tratta di denaro. Difficoltà che abbiamo avuto tutti in una certa fase della vita, ma che si fanno passaggio obbligato se si vuole esprimersi al meglio professionalmente.

Se faccio un buon lavoro, il cliente lo vedrà e mi pagherà di più la prossima volta…

L’approccio è sbagliato a priori, perché così facendo svalutiamo il lavoro che siamo chiamati a fare, ancor prima di farlo.

Se un cliente ci affida un incarico, vuol dire che disponiamo delle abilità e competenze che è importante e prezioso avere per soddisfare la sua richiesta. Farsi pagare un compenso adeguato, è il modo coerente per quantificare il valore di quelle abilità e competenze.

È importante considerare che le tariffe che accettiamo dai clienti finiscono per stabilire e influenzare il prezzo di mercato, impattando sugli standard di tutti i liberi professionisti che operano in quel dato settore. Se la maggior parte dei liberi professionisti accetta compensi inferiori alla media, sarà più difficile negoziare tariffe eque in futuro.

Per evitare che questo accada, occorre avere maggiore consapevolezza circa il proprio valore e al proprio grado di expertise rispetto a colleghi e competitor.

Ciò che è importante tenere a mente è che la partita non si gioca sul prezzo: si tratta di vendere la soluzione che si è in grado di generare per il cliente o il cambiamento di cui il cliente ha bisogno.

A questo punto, quanto vale il tuo lavoro?

Per avere lavoro sufficiente, dovrei accettare tutti gli incarichi che mi vengono offerti. Potrei anche fare alcuni lavori gratis, solo così posso fare l’esperienza…

Quando non si ha molto lavoro, accettare tutto ciò che arriva sembra la soluzione più saggia. Così come non ritenere di avere “abbastanza” esperienza, spinge ad accettare lavori sottopagati.

Ma quando saprai di avere “abbastanza” esperienza e lavori?

Il lavoro di un freelance dipende dalle sue capacità e conoscenze. Probabilmente hai impiegato molto tempo ed energia per padroneggiare il mestiere, ed è un’abilità di cui le aziende hanno bisogno.

Quindi, possiamo dire che “abbastanza” è quando hai a disposizione e sai gestire tutto quello che serve a soddisfare le esigenze di un cliente.

In parole semplici: se sei in grado di fare il lavoro, sei anche in grado di farti pagare. Anche se c’è sempre margine di miglioramento, il tuo lavoro merita, comunque, di essere retribuito in denaro e non in esperienza.

Di fatto, se qualcuno si rivolge a te, vuol dire che ti ha cercato. E questo è già un valore.

Non importa in che modo valuti le tue potenzialità, ma se gli altri ti chiedono aiuto per risolvere un problema significa che le tue capacità valgono.

Se voglio diventare un libero professionista, non posso essere troppo esigente: potrebbe danneggiare la mia reputazione. E poi, se rifiuto un lavoro perché non remunerativo, il cliente andrà da qualcun altro…

“Beggars can’t be choosers”, i mendicanti non possono scegliere, è un chiaro esempio di mindset sbagliato. Una sorta di “questo è quanto passa il convento”.

E’ importante saper distinguere quali progetti sono interessanti per te. Non dovresti cioè sentirti forzato ad accettare un lavoro che non vuoi fare o che va contro i tuoi valori e la tua etica solo perché sei preoccupato di apparire “difficile” o che “te la tiri”.

Accettare un lavoro che non è nelle nostre corde serve solo a generare rabbia e risentimento. Accettare opportunità che non ci soddisfano e/o sottopagate può portare a un circolo vizioso fatto di super lavoro e spreco di tempo dal quale può poi essere molto difficile uscire.

Se rifiuti un lavoro, non vuol necessariamente dire che non ti verranno offerte altre opportunità. Anzi, potrebbe essere un modo per differenziarti da chi non è ben posizionato e focalizzato su ciò che sa e sa fare bene.

Pensaci, tu vorresti un professionista che spazia da un ambito all’altro e accetta compromessi di ogni tipo, economicamente cheap, al limite del frustrato e stressato?

RISOLVERE PROBLEMI in TEMPI INCERTI e CONDIZIONI IMPERFETTE

 

Prendere buone decisioni non è una abilità innata. Si può allenare e migliorare.

Ecco 5 approcci che possono rivelarsi molto utili.

1. Sii curioso

Di fronte all’incertezza, non stancarti di chiedere “Perché?

Sfortunatamente, crescendo, tendiamo a smettere di fare domande. Il cervello dà un senso a un numero enorme di informazioni imponendo modelli che si sono dimostrati utili in passato. Ecco perché è utile fare una pausa e chiedersi:

perché le condizioni o le ipotesi sono quelle che sono?

Questo fino a quando non si arriva alla radice del problema.

 

I bias, tra cui conferma, disponibilità e ancoraggio, spesso portano a restringere anzitempo la gamma di soluzioni. Eppure le risposte migliori derivano dall’essere curiosi.

Un suggerimento arriva dell’economista Caroline Webb: mettere un punto interrogativo dopo le ipotesi iniziali tende a incoraggiare più percorsi di soluzione e pone l’accento, correttamente, sulla raccolta dei dati.

Utili sono anche le sessioni di tesi/antitesi, in cui un gruppo viene diviso in squadre avversarie che mettono in dubbio le conclusioni iniziali. I risultati migliori derivano dall’accettazione dell’incertezza. La curiosità è il motore della creatività.

 

2. Tollera l’ambiguità e rimani umile!

Spesso, quando pensiamo ai bravi decisori, tendiamo a immaginarli perfettamente razionali, quasi matematici. La realtà è che la maggior parte delle buone decisioni prevede molti tentativi e altrettanti errori; è più simile all’apparente casualità del rugby che alla precisione di un programmatore.

Le ipotesi basate sull’istinto possono essere sbagliate. Ecco perché una delle chiavi per operare in ambienti incerti è l’umiltà epistemica che Erik Angner definisce come:

la consapevolezza che la nostra conoscenza è sempre provvisoria e incompleta e può richiedere una revisione alla luce di nuove prove“.

Inizia con soluzioni sfidanti che implicano certezza. Puoi farlo nel modo migliore ponendo domande come:

“Cosa dovremmo credere perché questo sia vero?

Ciò rende più facile valutare le alternative. Quando l’incertezza è alta, vedi se puoi fare piccole mosse o acquisire informazioni a un costo ragionevole per arrivare a un insieme di soluzioni. La conoscenza perfetta scarseggia, in particolare per problemi aziendali e sociali complessi. Abbracciare l’imperfezione può portare a una risoluzione dei problemi più efficace. È praticamente un must in situazioni di elevata incertezza, come l’inizio di un processo di problem solving o durante un’emergenza.

 

3. Apri la visione

Le libellule hanno una visione quasi a 360 gradi, con un solo punto cieco dietro la testa. Questa straordinaria visione è una delle ragioni per cui è in grado di tenere d’occhio un singolo insetto all’interno di uno sciame e inseguirlo evitando collisioni a mezz’aria con altri insetti dello sciame.

L’idea di un occhio che cattura 360 gradi di percezione è un attributo dei “superprevisori”: i migliori nella previsione degli eventi.

Pensa a questo come ad allargare l’apertura su un problema o guardarlo attraverso diverse angolature.  Allargando l’apertura, possiamo identificare minacce o opportunità diversamente impensabili. Il segreto per sviluppare una visione tipica delle libellule è “ancorarsi all’esterno” quando si affrontano problemi di incertezza e opportunità. Allarga più che puoi il contesto.   Ma prendi nota: quando tempi e risorse sono limitate, si potrebbe essere tentati di restringere oltre modo il campo e fornire una risposta convenzionale.

 

4. Sfrutta l’intelligenza collettiva e la saggezza della folla

È un errore pensare che la tua squadra abbia le persone più intelligenti nella stanza. Non è così. Sono altrove e nemmeno hanno bisogno di essere lì se puoi accedere alla loro intelligenza con altri mezzi.

E’ il consiglio di  Chris Bradley.

Quando Sir Rod Carnegie era CEO di Conzinc Riotinto Australia (CRA), era preoccupato per i costi dei tempi di stop imprevisti degli autocarri pesanti, in particolare quelli che richiedevano il cambio dei pneumatici. Ha chiesto al team chi era il migliore al mondo a cambiare le gomme; la risposta è stata la Formula Uno, la competizione automobilistica. Un team si è recato nel Regno Unito per apprendere le migliori pratiche per il cambio degli pneumatici nei box della pista e poi ha implementato ciò che ha appreso a migliaia di chilometri di distanza, nella regione di Pilbara, nell’Australia occidentale. La squadra più intelligente per questo problema non era affatto nel settore minerario. Non era sul posto, ma non ce ne sarebbe comunque stato bisogno.

 

5. Mostra e racconta perché la narrazione genera azione

I risolutori di problemi con poca esperienza tendono a mostrare il loro processo in modo analitico per convincerti dell’intelligenza della loro soluzione. I risolutori di problemi esperti raccontano il modo in cui collegano il pubblico al problema e poi usano combinazioni di logica e persuasione per ottenere l’azione.

Un team della Nature Conservancy, stava presentando una proposta per chiedere a una fondazione filantropica di sostenere il ripristino delle barriere coralline e la salvaguardia delle ostriche. Prima della presentazione, il team ha portato 17 secchi pieni d’acqua nella sala riunione. Quando i membri della fondazione sono entrati nella stanza, hanno subito voluto sapere a cosa servivano i secchi. Il team ha spiegato che il ripristino delle barriere migliora notevolmente la qualità dell’acqua perché ogni ostrica filtra 17 secchi d’acqua al giorno. Le ostriche possono aiutare a far funzionare l’economia. I decisori sono stati portati nella risoluzione dei problemi attraverso lo spettacolo e il racconto.

Il problem solving più elegante è quello che rende ovvia la soluzione. Il compianto economista Herb Simon l’ha messa in questo modo:

“Risolvere un problema significa semplicemente rappresentarlo in modo da rendere la soluzione trasparente”.

Inizia con l’essere chiaro sull’azione che dovrebbe scaturire dalla risoluzione dei problemi e dai risultati: l’idea guida per il cambiamento. Quindi trova un modo per presentare visivamente la tua logica in modo che il percorso verso le risposte possa essere discusso e abbracciato. Presenta l’argomento in modo emotivo e logico e mostra perché l’azione preferita offre un interessante equilibrio tra rischi e benefici. Ma non fermarti qui. Spiega i rischi dell’inazione, che spesso hanno un costo maggiore rispetto alle azioni imperfette.

 

Questi approcci possono essere utili in un’ampia gamma di circostanze, ma in tempi di grande incertezza sono essenziali.

Ora tocca a te…

 

Fonti

Angner E., “Epistemic humility—knowing your limits in a pandemic,” Behavioral Scientist, April 13, 2020, behavioralscientist.org.

Duke A., Thinking in Terms of Bets: Making Smarter Decisions When You Don’t Have All the Facts, New York, NY: Portfolio/Penguin, 2018.

Tetlock P., Gardner D., Superforecasting: The Art and Science of Prediction, New York, NY: Crown, 2015.

Bradley C., Hirt M., Smit S., Strategy Beyond the Hockey Stick: People, Probabilities, and Big Moves to Beat the Odds, Hoboken, NJ: Wiley, 2018.

Bradley C, McLean R., “Want better strategies? Become a bulletproof problem solver,” August 2019.

Simon H., The Sciences of the Artificial, Cambridge, MA: MIT Press, 1969.

LE PERSONE NON RESISTONO AL CAMBIAMENTO. RESISTONO A ESSERE CAMBIATE

Uno degli errori più ricorrenti quando si applicano interventi di change management è concentrarsi unicamente sul cambiamento che si vuole ottenere trascurando l’impatto che questo ha sulle persone che lo subiranno.

Se si è troppo concentrati sul piano di azione e poco sulle persone, ci sono buone possibilità che il progetto fallisca.

Uno dei modelli più utili allo scopo è quello di William Bridges.

 

Che cos’è il modello di transizione Bridges?

 Creato dal consulente organizzativo William Bridges, questo modello ha la peculiarità di fare una distinzione tra cambiamento e transizione.

Bridges ha descritto il cambiamento come “un evento esterno che si verifica“. Ad esempio, l’adozione di un nuovo software o il lancio di un nuovo prodotto.

Ciò che le persone attraversano durante questo cambiamento esterno è una “transizione” interna. Il modello di transizione di Bridges si concentra sul processo psicologico che vivono le persone durante il cambiamento e consta di tre fasi.

Se gli step di transizione non vengono affrontati e gestiti, la resistenza al cambiamento può far deragliare il progetto o non produrre il risultato finale desiderato.

Un aspetto chiave è dato dal fatto che l’obiettivo di un progetto di change management di successo non dovrebbe essere il risultato del cambiamento, ma la fine del vecchio processo che le persone devono affrontare all’inizio di quel cambiamento .

Pur essendo simile al modello Lewin, il modello di Bridges è più incentrato sull’individuo e sulle tante emozioni (sia negative sia positive) che possono accompagnare un cambiamento organizzativo.

L’obiettivo è che coloro che facilitano il cambiamento comprendano e affrontino eventuali emozioni negative in modo che possano rimuovere le barriere al cambiamento.

Le fasi della transizione

 

  • Ending: gestire la transizione durante il cambiamento significa capire che inizia con una fine o una perdita. Le persone stanno dicendo addio al modo in cui le cose venivano fatte, il che può comportare sentimenti di rabbia, rifiuto, confusione e frustrazione.
  • Zona neutrale: subentra nel momento in cui le persone, superata la fase di rifiuto, elaborano le nuove informazioni. Questo è un momento di flusso e può includere sentimenti di eccitazione, ansia, resistenza, creatività e innovazione.
  • Nuovi inizi: significa cementare nuovi modi di fare le cose e incorporarli come nuova norma. I sentimenti in questa fase possono comportare sollievo, confusione, incertezza, impegno ed esplorazione.

 

Come si usa il modello di transizione di Bridges per facilitare il cambiamento?

Una volta che sai cosa stanno attraversando le persone, come puoi utilizzare il modello Bridges per facilitare il cambiamento?

COMUNICAZIONE

E’ importante che le persone sappiano quale ruolo svolgono nel cambiamento, in modo che si sentano incluse e apprezzate. Comunicaglielo.

FEEDBACK

Dai alle persone la possibilità di esprimere ciò che sentono riguardo al cambiamento. Entrare in contatto con gli stakeholder, durante il progetto di cambiamento, può aiutarti a essere consapevole in quale fase del modello Bridges si trovano. Ciò ti consentirà di affrontare i sentimenti negativi che potrebbero impedir loro di abbracciare il cambiamento.

MONITORAGGIO

Segui le persone mentre attraversano le tre fasi del modello Bridges in modo da sapere quali piani d’azione potrebbero dover essere messi in atto per gestire la resistenza al cambiamento.

 

E ricorda, le persone non resistono al cambiamento. Resistono a essere cambiate.

IL COSTO DEI SEGRETI (nelle organizzazioni)

Abbiamo tutti dei segreti.

Potrebbe essere quello di sapere che la promozione promessa a un collaboratore sarà disattesa; il trasferimento in un altro dipartimento non sarà bloccato, il tempo determinato non sarà rinnovato, e via dicendo.

Qualunque sia la decisione, prima di poterla comunicare talvolta occorre tenerla segreta, autocensurarsi, far buon viso a cattivo gioco, adattarsi… E non tutti riescono ad accettarlo.

D’altra parte però, decenni di studi scientifici, dimostrano che spesso preferiamo non smascherarli i segreti, perché incrinerebbero (finchè durano) il nostro bisogno di falso controllo. Fintanto che fingo di non vedere, il problema non esiste, l’effetto struzzo nel pieno delle sue potenzialità.

L’IMPATTO SU BENESSERE E PRESTAZIONI

Celare la verità ha dei costi su prestazioni e benessere.

Il 97% delle persone coinvolte in uno studio, ha in media 13 segreti che riguardano il posto di lavoro, come licenziamenti o promozioni in sospeso, vita personale e famiglia[1].

Due sono i principali danni a cui si può andare incontro:

∑         Danneggia il benessere. L’energia per resistere, autocensurarsi, pensieri ossessivi e ansia nell’anticipare cosa sarebbe successo quando il segreto sarebbe stato rivelato non fanno bene alla salute.

∑         Danneggia la concentrazione e il processo decisionale: quando si è distratti da un segreto non si è completamente presenti, con la conseguenza che l’irrazionalità avrà vita più facile.

 

COSA SUCCEDE NEL CERVELLO DI CHI DEVE MANTENERE UN SEGRETO

∑         L’amigdala è super irritabile, pronta a mettersi in azione, con tutto ciò che ne consegue

∑         L’ippocampo, a causa dello stress da eccesso di cortisolo, è compromesso con una ripercussione su apprendimento, memoria e sistema immunitario,

∑         La corteccia prefrontale è offline a causa dell’iperattività della amigdala, quindi la capacità di comunicare, collaborare, innovare saranno limitate.

 

I DATI

Per molti, avere dei segreti, è utile. Una necessità che sovrasta ampiamente la difficoltà di dover mentire.

Una ricerca di Glassdoor, condotta nel Regno Unito, ha rivelato che il 44% degli intervistati dice di mentire per evitare di mettersi nei guai e il 34% per nascondere gli errori commessi[2].

Il 40% del campione, lo fa perché è “più facile essere d’accordo con la maggioranza” e il 24% perché al manager o ai colleghi non piace sentire opinioni diverse dalle loro.

Il 17% ha affermato di aver mentito perché si sentiva a disagio nel dare un feedback onesto ai colleghi.

Il 72% del campione ha detto che l’autenticità sul lavoro permette di creare una cultura solida e il 77% che questa favorisce le relazioni tra colleghi e clienti, ma solo il 51% crede che i loro CEO e manager siano autentici.

 

I COSTI ECONOMICI DEL MENTIRE

Scandagliando i dati scientifici, l’unica verità sembra essere che tutti mentano e celino segreti. Qualcuno ci riesce meglio di altri. D’altronde  viviamo in un tempo in cui la bugia e l’inganno sono sempre più tollerate e non rappresentano un’eccezione, anche se questo costa molti soldi.

Secondo i dati dell’Association of Certified Fraud Examiners, in media ogni società perde il 5% dei guadagni annuali a causa di frodi, per un totale di circa 3.5 trilioni di dollari ogni anno. Le ricerche hanno determinato che ogni giorno, ogni individuo può ricevere dalle 10 alle 200 informazioni false. Un americano su quattro ritiene ammissibile mentire a un assicuratore, un terzo dei curriculum sono “aggiustati”. Un lavoratore su cinque dice di essere a conoscenza di frodi nel suo ambiente professionale ma non le riporta ai superiori.

 

A QUALI BUGIE PIACE CREDERE

Secondo Marcus Buckingham[3] e Ashley Goodall[4], NOVE sono le bugie a cui tutti, indistintamente, piace credere[5]:

∑         Alle persone importa per quale azienda lavorano

∑         A vincere è la migliore pianificazione

∑         Le migliori aziende lavorano su obiettivi

∑         I migliori talenti hanno un profilo completo

∑         Le persone hanno bisogno di feedback

∑         Le persone possono valutare altre persone in modo affidabile

∑         Le persone hanno un potenziale

∑         La cosa più importante è il work-life balance

∑         La leadership ha caratteristiche precise

 

L’esperienza di una persona in un’azienda è influenzata soprattutto dalle relazioni individuali. Per questo, è più importante il comportamento del proprio referente rispetto a un’astratta cultura aziendale che non si può verificare sulla propria pelle. La cultura aziendale è, secondo gli autori, un’utile convinzione condivisa che serve a orientare il comportamento di tutti.

Riguardo al talento, la convinzione è che chi ce l’ha sia concentrato su uno o due punti di forza. Il miglior nuotatore, il miglior calciatore o il miglior manager, sono coloro che hanno alcuni talenti precisi limitati a un’area specifica. Prendiamo Messi, che fa tutto con il piede sinistro. Chissà, forse con il destro sarebbe solo uno dei tanti.

Per capire i punti di forza di una persona? Non affidatevi alle review tra colleghi perché le persone semplicemente non sanno giudicare altre persone: troppi pregiudizi, troppi punti di vista parziali e poca chiarezza su cosa c’è da valutare. Per non parlare dei feedback: evitateli perché fanno cascare nell’errore di cercare di cambiare le persone invece di cambiare le situazioni e i contesti che portano problemi.

Lapidari i due ricercatori, mi piace credere che gli esseri umani siano meglio di così. Che sia, il mio, un bisogno di celare a me stessa la verità?

 

LE (NON) SOLUZIONI

∑    Comunicare che nella propria sfera di influenze non c’è spazio per la menzogna è un buon modo, un nudge che diventa un impegno, se fatto nel modo giusto. A cui si aggiunge dare il buon esempio.

∑    Non confondere il segreto con la bugia. Il costo dei segreti ha un prezzo emozionale e psicologico, tutti paghiamo per gli inganni, direttamente o indirettamente.

∑    Ricordarsi che ci si può proteggere tenendo a mente che una bugia non ha potere. Ne acquista nel momento in cui qualcuno decide di crederci. E se fossi tu a volerci credere a tutti i costi, quale bisogno credi così di soddisfare (e problema procrastinare)?

 

Queste ti sembrano soluzioni a basso impatto e magari anche banali? Forse, ma essere consapevoli di cosa spinge a mentire o a tenere un segreto è qualcosa che non trascurerei.

Quali (s)vantaggi ha sulla mia serenità e benessere, sul mio lavoro e sulla mia carriera? Cosa penso di ottenere o di evitare?  Cosa rispondi?

 

Tutto ha un prezzo. Spetta a ognuno di noi dargli un valore e tenerlo a mente quando saremo di fronte a una scelta.

 

FONTI

[1] Slepian ML, Chun JS, Mason MF. The experience of secrecy. J Pers Soc Psychol. 2017 Jul;113(1):1-33.

[2] http://hrnews.co.uk/half-of-employees-have-lied-at-work/

[3] https://www.marcusbuckingham.com

[4] https://www.ashleygoodall.com

[5] https://www.amazon.it/Nine-Lies-about-Work-Freethinking-ebook/dp/B07C3ZT28C

QUANDO LA PAURA DISTRUGGE IL LAVORO DI SQUADRA (di un’organizzazione)

Quanto ti condiziona la paura al lavoro?

Forse è il lieve, impercettibile timore di non essere in grado di raggiungere, in tempo, il prossimo obiettivo.

Forse è il timore più cosciente che il progetto che stai portando avanti mancherà una scadenza.

Forse è la paura che la soluzione che hai suggerito, potrebbe essere sbagliata.

Le Neuroscienze ci insegnano che la paura attiva l’amigdala in 0,07 secondi. Più forte è l’innesco, meno siamo in grado di accedere alla corteccia prefrontale, la sede del processo decisionale ragionato, dell’innovazione, dell’empatia e di altri aspetti del pensiero che apportano il massimo valore a ciò che stiamo facendo.

Quando il nostro pensiero è guidato dalla paura, consapevole o meno, non diamo il meglio di noi stessi non perché non lo vogliamo, ma perché il nostro cervello ce lo impedisce.

La sicurezza psicologica è l’antidoto alle strutture organizzative tossiche e basate sulla paura, oggi ancora così prevalenti, sostiene Amy Edmondson, professoressa alla Harvard Business School:

La sicurezza psicologica è la convinzione che posso portare me stesso al lavoro. È il sapere che la mia voce sarà accolta, che non sarò umiliato o fatto sentire in difetto se pongo domande, anticipo preoccupazioni e sottolineo errori rilevanti per il lavoro[1].

La ragione per cui questo è così importante oggi, afferma Edmondson, è perché viviamo in un mondo in cui la conoscenza, l’intuizione e l’esperienza sono la valuta e la fonte della creazione di valore. Se ho conoscenza ma non posso usare quella conoscenza o esprimere quella conoscenza perché mi sto trattenendo per qualche motivo, allora il valore è perso.

La paura è costosa poiché si perdono talento, conoscenza e competenza.

Un altro professore della Harvard Business School, James L. Heskett, ha affermato che:

La paura inibisce l’apprendimento e la cooperazione e favorisce un’epidemia di silenzio. La sicurezza psicologica, d’altra parte, porta a maggiore apprendimento, prestazioni e mortalità ancora più bassa.

 

Costruire sicurezza psicologica nella tua organizzazione

Ecco alcune strategie per contrastare la paura sul posto di lavoro

  • “De-stigmatizzare” il fallimento e riformularlo come un’opportunità per aumentare apprendimento e crescita.
  • Sottolineare perché esprimere il proprio pensiero e le proprie idee è importante e ricordare alle persone perché ciò che fanno è importante.
  • Diventare non conoscitori che praticano l’ascolto umile e invitare gli altri a partecipare sondando intenzionalmente per scoprire ciò che vedono e pensano.
  • Esprimere sinceramente apprezzamento per i contributi degli altri.
  • Accettare l’idea che la paura non appartiene al posto di lavoro. Se necessario, sanzionare le azioni dei membri dell’organizzazione che aumentano, invece di ridurre, la paura.

 

Consigli non richiesti

Un parte del successo di una organizzazione sta nell’avere un clima aziendale che non ridicolizza, zittisce o intimidisce le nuove idee (per quanto cattive possano essere), non limita la sperimentazione, l’espressione del pensiero critico, ma consente a queste cose di essere una parte fondamentale del processo di lavoro.

Se hai un ruolo di responsabilità, inizia a lavorare per eliminare la paura nella tua squadra e nella tua azienda.

Se dai consigli a chi ricopre ruoli di leadership e di gestione, insegna loro come eliminare la paura in coloro di cui sovrintendono il lavoro e aiutali a capire perché è importante farlo.

E se ti ritrovi a vivere in uno stato costante di paura sul posto di lavoro, esamina se è il momento di trovare un’opportunità professionale diversa, o il rischio è che quella paura finisca per essere con te, anche in molti altri contesti non lavorativi.

 

Fonti

[1] Work and life with Stew Friedman (podcast)

[2]Edmondson A.C., The Fearless Organization, Wiley, 2021

LE BUONE DECISIONI SI PRENDONO SOLO SE SI DISPONE DI TUTTE LE INFORMAZIONI. ANCHE NO…

Siamo portati a credere che fornendo alle persone tutte le informazioni disponibili, queste saranno in grado di prendere buone decisioni.

Noi stessi pensiamo di prendere decisioni informate laddove disponiamo di tutti i dati.

Non è così. O molto meno di quanto si pensi.

1° punto: disporre di tutte le informazioni non è un indicatore poiché non è misurabile: non c’è modo di sapere quando si dispone di tutte le informazioni.

2° punto: la maggior parte delle volte le persone non prendono decisioni informate. Prendono decisioni emotive. Cercano informazioni a supporto della decisione verso cui sono orientati e screditano tutto ciò che è contro. E questo non le conduce a prendere una decisione informata. Solitamente neppure una buona.

3° punto: non tutte le informazioni sono utili e le persone non sono sempre brave a capire quali sono quelle inutili. Anche le più esperte e preparate sbagliano.

La chiave per prendere buone decisioni è essere in grado di filtrare le informazioni errate e concentrarsi su quelle giuste. La prima parte è molto più importante della seconda.

E’ difficile sapere se si hanno tutte le corrette informazioni che servono. Anzi, quasi mai disponiamo delle migliori informazioni.

E nemmeno dovrebbe essere questo l’obiettivo. Ciò che occorre fare è eliminare le informazioni errate, quelle che distraggono o, peggio, spingono verso la scelta errata.

L’obiettivo è impedire che le informazioni errate circolino, finendo con il condizionarci e confonderci.

4° punto: la maggior parte delle persone cerca solo le informazioni che rafforzano il loro pensiero. Ecco perché l’algoritmo di YouTube, Amazon, Facebook e via dicendo è efficientissimo: sa che il modo migliore per coinvolgere le persone non è fornire loro le informazioni migliori, ma piuttosto dare loro ciò che vogliono.

E solitamente, ciò che vogliono è sentirsi bene con la decisione che stanno per prendere. Senza nulla che dica loro che stanno sbagliando o le metta in una situazione di incertezza. Ma difficilmente questo conduce a buone decisioni.

COME ESSERE CERTI DI AVER PRESO UNA BUONA DECISIONE?

Come possiamo essere certi di aver preso una buona decisione?

Non necessariamente soddisfare l’obiettivo prefissato è sintomo di buona decisione.

Supponiamo di essere il direttore commerciale di un’azienda e di annoverare fra i collaboratori un commerciale di indubbia qualità e bravura, riconosciuto da tutti e a cui le società concorrenti fanno il filo da tempo.

Un giorno il commerciale arriva in ritardo a un meeting importante, si siede al suo posto come niente fosse e non chiede scusa e nemmeno imputa a qualche evento straordinario o grave la mancata puntualità.

Come vi comportereste nei panni del direttore? E come potete essere certi che la decisione presa sia buona?

Potreste riprendere il commerciale seduta stante o far finta di niente. In ogni caso, il rischio di incorrere in una decisione sbagliata potrebbe avere conseguenze pesanti: il commerciale potrebbe risentirsi e andarsene altrove oppure, se non agite, perdere credibilità e rispetto degli altri collaboratori.

Spesso la decisione che si prende è inficiata da convinzioni, valori e strategie adattive che in altri contesti e nel tempo si sono dimostrate efficaci. Non necessariamente però anche in questo caso, può funzionare. Mi spiego meglio.

Se per noi la puntualità è un valore importante e distintivo, difficilmente riusciremmo a tacere e saremo tentati di trattare il commerciale come tutti gli altri venditori della squadra e quindi a non considerarlo come il migliore dell’organizzazione. Di fatto, lo puniremmo appena entra in sala riunioni.

Se invece per noi è il valore della bravura a guidarci, saremo tentati di trattare i collaboratori proporzionalmente al loro merito e ai loro risultati. Di fatto, ignoreremo il ritardo certi dei vantaggi che il commerciale saprà portare all’azienda.

Quale decisione vi sembra corretta?

Nessuna delle due. Sia rimproverare sia ignorare il commerciale non sono decisioni corrette, poiché guidate dalla nostra storia, da pregiudizi e credenze e non dall’analisi del contesto, della situazione e di una visione a medio/lungo termine.

Riprendendo il commerciale, si potrebbero aprire due scenari. Il commerciale, accortosi dell’errore, potrebbe essere spinto a fare di più sul lavoro, aumentando ulteriormente il fatturato. E facilmente penseremmo che intervenire sui comportamenti sbagliati sia la miglior soluzione in frangenti di questo tipo, anche verso i collaboratori più efficaci e bravi.

Oppure il commerciale potrebbe prendere contatto con altre aziende del settore e imputarvi (imputare al direttore commerciale) la responsabilità della decisione, con il rischio che il CEO insoddisfatto di come è stata gestita la situazione, vi licenzi o perda fiducia in voi.

Quindi? Cosa è giusto fare?

Entrambe le scelte possono funzionare, purchè l’indicatore da considerare non sia semplicemente il risultato finale ma il processo che sottende a quella decisione.

Sapere quanto e quali valori, convinzioni e pregiudizi ci spingono verso strategie adattive e standardizzate è importante. Questo impedisce loro di portarci all’azione senza aver verificato le variabili e lo specifico contesto, rischi e opportunità di ciascuna opzione. Conoscere i rischi e gli effetti sia in negativo sia in positivo, ci guida verso la scelta corretta. In quel momento, in quel contesto.

Ogni decisione complessa non può essere presa senza un’analisi e un’attenzione al contesto.

Come è possibile prendere la giusta decisione?

Facendoci le giuste domande. Più domande ci facciamo più riusciremo a prevedere incertezza, eventi e rischi.

… to be continued

SOLDI, PREMI E POLPETTE… NON SONO SPINTE GENTILI. RIFLESSIONI ESTIVE ANALIZZANDO SOLUZIONI POCO STRATEGICHE

Ci stanno provando in tutti i modi a convincere gli indecisi a vaccinarsi. Ma nonostante in tanti nominino le spinte gentili, soldi, premi e polpette hanno ben poco a che fare con i Nudge.

IN GIRO PER IL MONDO

In Serbia ogni cittadino che si vaccina riceve in cambio 25 euro. Negli Stati Uniti, Joe Biden ha chiesto agli Stati di offrire 100 dollari per ogni nuovo vaccinato, e rimborsare tutte le imprese che hanno concesso permessi retribuiti ai loro dipendenti per vaccinarsi.

Lo stato dell’Ohio ha offerto a ogni vaccinato la possibilità di partecipare a un’estrazione con in premio un milione di dollari. Il governatore della California ha lanciato la lotteria in denaro Vax for the Win, con un premio finale di un milione e mezzo a 10 fortunati nuovi vaccinati.

A Detroit sono stati regalati 50 dollari a chi portava una persona a farsi vaccinare e in West Virginia ogni vaccinato, ha ricevuto un buono risparmio da 100 dollari. A New York sono stati regalati biglietti per concerti, partite di basket, corse gratuite in metro e in treno per i pendolari. Nel New Jersey vengono regalate pinte di birra, nello stato di Washington spinelli.

In Russia, le autorità hanno distribuito cinque auto a settimana in un’estrazione a premi a cui ha partecipato solo chi poteva dimostrare di aver fatto almeno una dose di vaccino.

In Libano, Uber ha offerto due corse gratuite fino a 40.000 LBP (poco meno di 50 euro) ciascuna, per viaggiare da e verso i centri vaccinali.

In Romania, il governo ha consegnato ai nuovi vaccinati panini con salsiccia.

Ai londinesi, oltre a usufruire dei trasposti gratuiti per recarsi nelle sedi vaccinali, è stata data la possibilità di vincere biglietti per la finale degli Europei di calcio.

In Asia sono stati distribuiti premi in cibo. In Indonesia, una gallina viva, nelle Filippine sono state messe in palio mucche e riso.  Nella periferia di Pechino vengono regalate uova agli ultra sessantenni che hanno completato il ciclo vaccinale.

A Hong Kong, ci sono in palio lingotti d’oro, Rolex di diamanti, un buono spesa di centomila dollari e una casa da oltre un milione e quattrocentomila dollari.

In Grecia viene invece offerto un buono da 150 euro ai giovani fra i 18 e i 25 anni che si vaccina. A Praga per i dipendenti statali che si vaccinano ci sono due giorni di ferie retribuite in più.

C’E’ CHI PREMIA E CHI PUNISCE

C’è chi invece ha scelto punizioni anziché premi. A Giacarta ci sono multe fino a cinque milioni di rupie (300 euro) per le persone che non si immunizzano.  In alcune zone dell’India non si servono liquori a chi non dimostra di essere vaccinato.

Gli Emirati Arabi limitano le partecipazioni a eventi live, attività sportive artistiche e culturali. In Arabia Saudita non si può entrare nei centri commerciali, in Kazakistan niente bar, cinema e aeroporti. Nelle Filippine i cittadini possono optare tra: Il vaccino o il carcere[1].

Il Cremlino ha affermato che le persone non vaccinate potrebbero non accedere al posto di lavoro, non escludendo discriminazioni.

E L’ITALIA?

Anche da noi le proposte si differenziano.

Nel Lazio ci si può spostare gratuitamente con Uber che mette a disposizione due corse verso e da i centri vaccinali. Nel Messinese, la Coldiretti regala una bottiglia di Siccagno di Valledolmo (passata di pomodoro).

In Piemonte ci sono incentivi per i medici di base che riescono a convincere i propri utenti. Se il 90% di questi risulterà vaccinato entro il 15 settembre, riceveranno un compenso di 2 euro in più per assistito e di 1 euro e mezzo se la percentuale si fermerà tra l’87 e l’89,99%. La Ausl di Bologna riconoscerà un premio ai pediatri che convinceranno il 70% dei loro giovani pazienti a vaccinarsi.

UN PO’ PIU’ COMPLICATO DI COSI’…

Perfetto.

Anche no!

Distribuire soldi come se piovesse, non è un nudge (i nudge per essere tali non prevedono né incentivi economici né disincentivi). Come è già accaduto nel 2005, in Perù, quando si è voluto affrontare il problema delle diseguaglianze e frenare la povertà. E il governo ha lanciato i conditional cash transfer (cct), la versione nazionale degli Juntos: sussidi monetari condizionati che prevedevano pagamenti mensili di 100 soles in favore di genitori poveri, perlopiù madri. Per non perdere il sussidio, le donne dovevano assicurarsi che i figli frequentassero l’85% delle lezioni scolastiche in un anno e che si sottoponessero regolarmente a controlli medici e nutrizionali.

«In paesi come il Brasile, i cct sono stati importanti nell’accesso all’istruzione e nella conseguente riduzione delle disuguaglianze», spiegò la scelta Branko Milanovic, a lungo capo economista alla Banca mondiale[2]. Eppure i cct non sono la panacea, come dimostrano le voci critiche, tra cui quella del premio Nobel per l’economia Angus Deaton che ha evidenziato la loro incapacità di ridurre la povertà in via permanente[3]. Tuttavia questi programmi, complessivamente poco costosi per le finanze pubbliche (cifre tra lo 0,04 e lo 0,8% del Pil), continuano a essere molto popolari: nella sola America Latina si contano 129 milioni di beneficiari.

Al di là della loro presunta o reale efficacia, che lasciamo misurare agli economisti di mestiere, i cct sono incentivi economici e per questo ben lontani dalle politiche di nudging.

Un sussidio non può essere un nudge, come non lo è una multa e neppure una condanna alla prigione. Senza contare che gli incentivi economici distribuiti con questa leggerezza, sollevano un interrogativo etico e discriminatorio: i benestanti non saranno di certo spinti a vaccinarsi per soldi mentre gli svantaggiati subiranno una pressione non indifferente. Senza contare che nel medio – lungo termine diventano demotivanti. E quindi inefficaci.

Senza voler aprire una diatriba neuroetica, è impossibile non guardare ai dubbi che il denaro inevitabilmente solleva: l’incentivo economico non può che alimentare la cultura del sospetto. Non dimentichiamoci che è il bene comune e la protezione ai più fragili che dovrebbe spingere verso la vaccinazione.

Ecco perché più che gli incentivi, ci sono altre strategie a cui si potrebbe e dovrebbe ricorrere. La moral-suasion: incentrata su argomenti attrattivi, anzichè costrittivi e la spinta gentile, capace di rendere facili scelte complesse. Non obbligando, ma creando contesti che, senza togliere la libertà, rendono le decisioni più agevoli e funzionali.

CONTESTO

Non ovunque e non sempre è facile vaccinarsi. Spesso è più un percorso a ostacoli che una via di uscita: comunicazione confusa e contraddittoria, difficoltà a prenotarsi o impossibilità a scegliere quando farlo, o a spostare l’appuntamento, luoghi spesso scomodi o difficilmente raggiungibili se non si è automuniti, mancanza di chiare informazioni su possibili effetti collaterali e un’assistenza post vaccinazione latitante. Lo dico per esperienza diretta.

Senza contare che chi si occupa delle campagne di sensibilizzazione, poco o nulla sa di spinte gentili ed economia comportamentale. E nemmeno ci pensa a consultare gli esperti del settore.

Più che regalare bibite, biglietti della lotteria e qualche banconota, sarebbe più utile investire il denaro nel prelevare a domicilio persone con problemi di mobilità o affette da fragilità, predisporre équipe che portino la vaccinazione a domicilio, un’assistenza post vaccino quando necessaria, numeri verdi dove gli operatori rispondono in modo diretto e non costringano ad attese infinite senza nessuno che si faccia carico del problema.  O ancora, facilitare la vaccinazione di quei lavoratori saltuari e che hanno paura di perdere giorni di lavoro in caso di avventi avversi o problematiche post vaccino[4].

Insomma ci sono molti modi per usare il denaro. E a parità di budget, ricorrere ai Nudge (non come azione estemporanea ma come policy) porterebbe maggiori benefici rispetto ai compensi economici, mitigando o eliminando i sospetti e rafforzando la fiducia nel sistema sanitario pubblico.

FIDUCIA

La fiducia, ricordo, non si può comprare e gli incentivi possono alimentare dubbi sulle reali intenzioni delle istituzioni scientifiche. Un studio del 2020, condotto in 19 paesi utile a determinare i tassi di accettazione e i fattori che influenzano la propensione a vaccinarsi, ha mostrato come in realtà il 71,5% dei partecipanti sarebbe propenso al vaccino e il 48,1% ha riferito che accetterebbe la raccomandazione del datore di lavoro nel farlo. Le differenze nei tassi di accettazione variavano da quasi il 90% (in Cina) a meno del 55% (in Russia). Gli intervistati, a prescindere dalla nazionalità, che segnalano livelli più elevati di fiducia verso il proprio governo, hanno maggiori probabilità di ì vaccinarsi[5].

Tenendo conto di questi dati, gli incentivi difficilmente sono la soluzione. Se non per ridurre la procrastinazione, secondo gli studi dei premi Nobel per l’economia Duflo e Banerjee, e aumentare la percentuale dei vaccini dal 18 al 39%[6]. Un costo che è sicuramente giustificato.

Non c’è dunque una soluzione univoca. E ciò che realmente funzionerà lo si vedrà nel tempo. Intanto, non dimentichiamoci che i Nudge per quanto allettanti andrebbero applicati da chi li conosce per davvero. Non è una moda. E’ una strategia. Da Nobel. I soldi, e la letteratura scientifica lo dimostra, non sono così efficaci come ci piace pensare, benchè sia una soluzione sicuramente semplice e rapida…

FONTI

[1] https://www.reuters.com/world/asia-pacific/philippines-duterte-threatens-those-who-refuse-covid-19-vaccine-with-jail-2021-06-21/

[2] Fiszbein A., Schady N., et al., Conditional Cash Transfers reducing present and future poverty, The World Bank report, 2009.

[3] Deaton A., Instruments, Randomization, and Learning about Development, Journal of Economic Literature, Vol. 48, N. 2, June 2010, pp. 424-55.

[4] https://www.nytimes.com/2021/07/09/nyregion/free-doughnuts-arent-going-to-boost-vaccination-rates.html

[5] Lazarus, J.V., Ratzan, S.C., Palayew, A. et al. A global survey of potential acceptance of a COVID-19 vaccine. Nat Med 27, 225–228 (2021).

[6] https://www.nber.org/system/files/working_papers/w28726/w28726.pdf

Two (worthwhile) ways of thinking

There are many ways to test our decision-making ability. What I propose is a simple riddle, but one that must be answered instinctively.

“In a lawn, there is a sod of grass; every day the sod doubles in size; it takes 48 days to cover the entire lawn. How many days does it take to cover half a lawn?”.

Who says 24?

….

Who says 96?

Who says 47?

The majority of people have the certainty of making decisions in a rational way, i.e. weighing the alternatives optimally, evaluating the pros and cons of each option in order to arrive at the most functional choice with respect to the set objective in a sustainable time.

If the option chosen was 47, this is probably the case.

If it was 24 or 96, it’s proof that instinct, at least at this juncture, was smarter than reason. What is too often underestimated is the fact that intuition leads astray. Systematically, recurrently, and predictably. As biases and heuristics teach.

Why is it so easy to make mistakes?

Proving this point, there are two personalities who are both strong and antithetical at the same time. Both grandchildren of Eastern European rabbis, sharing a deep interest in the way “people function in their normal states, practicing psychology as an exact science, and both searching for simple, powerful truths […], gifted with minds of shocking productivity”. Both Jewish atheists in Israel.”

Their names were Amos Tversky and the Nobel Prize-winning economist Daniel Kahneman.

Amos Tversky was optimistic and brilliant because “When you’re a pessimist and the bad thing happens, you experience it twice: once when you worry and the second time when it happens.” He was able to resonate about scientific conversations with experts in fields far removed from his own, but almost ethereal, intolerant of social conventions and metaphors: “They replace genuine uncertainty about the world with semantic ambiguity. A metaphor is a cover-up.”

Instead, Kahneman was born in Tel Aviv, and spent his childhood in Paris. In 1940, the German occupation put the family at risk. Hidden in the south of France, they managed to survive (with the exception of his father, who died of untreated diabetes). After the war, the rest of the family emigrated to Palestine.

If Tversky was a night owl, Kahneman is an early riser who often wakes up alarmed about something. He is prone to pessimism, claiming that by “expecting the worst, one is never disappointed.” This pessimism extends to the expectations he has for his research, which he likes to question, “I have a sense of discovery whenever I find a flaw in my thinking.” 

Tversky liked to say, “People aren’t that complicated. Relationships between people are complicated.” But then he would stop and add, “Except for Danny.”

They were different, but anyone seeing them together, as they spent endless hours talking, knew that something special was happening, and they are credited with understanding why we make mistakes in making decisions.

Kahneman’s is an immense work, dedicated to his late colleague: in the end, it’s all about being slow or fast.

There are many ways to test our decision-making ability. What I propose is a simple riddle, but one that must be answered instinctively.

It’s all about being slow or fast

When it comes to thinking or making a decision, two systems are mobilized by the brain: system 1 (S1) and system 2 (S2), where S1 is intuitive, impulsive, loves to jump to conclusions, automatic, unconscious, fast and economical. S2, on the other hand, is conscious, deliberative, slow, often lazy, laborious to initiate, and reflective.

S1 and S2 don’t really exist, they are a handy analogy (or a label), which helps us understand what’s going on in our heads. For instance, it is thanks to S1 that we can quickly tie our shoes without really paying mental attention to the action itself or notice that an object is further away or closer than another, or even instantly intercept the fear on a person’s face and answer in a few moments the question: “What is the capital of France?”.

It is thanks to S2 if we can focus on the voice of a specific person in a noisy room full of people. If we can find our car in a crowded parking lot, dictate our phone number, fill out questionnaires, do math calculations and learn poems by heart. It would not be possible to perform complex tasks like these simultaneously. We can perform several actions together, but only if they are simple and require little mental effort.

Bias, heuristics and intuitions

The two systems are both active during our waking period, but while the first one works automatically, the second one is placed in a mode where it can make the least amount of effort and only a small percentage of its capacity is used. Its order is to consume as few calories as possible.

Normally S2 follows S1’s advice, without making any changes. However, if System 1 is in trouble, he disturbs System 2 to help him analyze the information and suggest a solution to the problem. In the same way, when S2 realizes that his partner is making a mistake, he activates: for example, when you would like to insult the boss, but then something stops you. That something is System 2.

However, S2 is not always involved in the judgments of System 1 and this leads to error. How? Just like it happened with the riddle proposed in the opening of the article.

If it is indisputable that System 1 is at the origin of most of our errors (i.e. bias and heuristics), it is also true that it produces many “expert intuitions”, the automatic reflexes that are essential in our lives to make important decisions in a few fractions of a second. It’s thanks to System 1 if a surgeon in the operating room or a firefighter facing a fire can make life and death choices to deal with emergencies and very often make the right decision in those few moments.

The trouble is that S1 doesn’t know his own limits. He has a tendency to make unforgivable mistakes in assessing the statistical probability of an event. Generally using System 1 we underestimate the risk that rare events occur.

We generally underestimate the risk that rare catastrophic events will occur, while overestimating the probability that they will recur soon after these disasters have occurred. To cut the long story short, if on one side it helps us to take an infinite number of decisions, its rapidity generates errors, just because it doesn’t analyze the data at disposal in how much time that operation requires, and he prefers to jump to conclusions to show us quickly and effortlessly the way to act.

System 1 is therefore easily influenced. This is why, in order to prevent errors, but above all to protect people so that they do not end up shredded because of the volatility of their System 1 or the slowness of System 2, nudges are born; the need for a gentle push that Kahneman cites as the bible of behavioral economics “that directs people to make the right choice”.


Ci sono molti modi per mettere alla prova la nostra capacità decisionale, quello che propongo è un semplice indovinello, a cui occorre però rispondere d’istinto.

«In un prato c’è una zolla d’erba; ogni giorno la zolla raddoppia di dimensione; ci vogliono 48 giorni per coprire l’intero prato. Quanti giorni ci vogliono per coprire metà prato?».

Chi dice 24?

….

Chi dice 96

Chi dice 47

La maggioranza delle persone ha la certezza di prendere decisioni in modo razionale, ponderando cioè in modo ottimale le alternative, valutando pro e contro di ogni opzione per giungere in tempi sostenibili alla scelta più funzionale rispetto l’obiettivo prefissato.

Se l’opzione scelta è stata 47 probabilmente è così.

Se è stata 24 o 96 è la prova che l’istinto, almeno in questo frangente, è stato più scaltro della ragione.

Ciò che troppo spesso si sottovaluta è il fatto che l’intuizione porta fuori strada. In modo sistematico, ricorrente e prevedibile. Come bias ed euristiche insegnano.

Perché è così facile sbagliare?

A dimostrarlo, due personalità forti e antitetiche allo stesso tempo. Entrambi nipoti di rabbini dell’Europa dell’Est, con in comune l’interesse profondo per il modo in cui «le persone funzionano nei loro stati normali, praticano la psicologia come una scienza esatta, ed entrambi alla ricerca di verità semplici e forti […], dotati di menti di sconvolgente produttività. Entrambi ebrei atei in Israele».

Si chiamavano Amos Tversky e il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman.

Amos Tversky era ottimista e geniale perché: «Quando sei un pessimista e la cosa brutta accade, la vivi due volte: una volta quando ti preoccupi e la seconda volta quando succede». Capace di illuminare conversazioniscientifiche con esperti di settori lontani dal proprio, ma quasi etereo, insofferente alle convenzioni sociali e alle metafore: «Sostituiscono l’autentica incertezza sul mondo con ambiguità semantica. Una metafora è un insabbiamento».

Kahneman nasce invece a Tel Aviv, trascorre l’infanzia a Parigi. Nel 1940, l’occupazione tedesca mette a rischio la famiglia. Nascosti nel sud della Francia, riescono a sopravvivere (ad eccezione del padre, morto a causa del diabete non trattato). Dopo la guerra, il resto della famiglia emigra in Palestina.

Se Tversky era un nottambulo, Kahneman è un mattiniero che si sveglia spesso allarmato per qualcosa. È incline al pessimismo, sostenendo che «aspettandosi il peggio, non è mai deluso». Questo pessimismo si estende alle aspettative che ha per la sua ricerca, che gli piace mettere in discussione: «Ho il senso della scoperta ogni volta che trovo un difetto nel mio modo di pensare».

A Tversky piaceva dire: «Le persone non sono così complicate. Le relazioni tra le persone sono complicate». Ma poi si fermava e aggiungeva «Tranne Danny».

Erano diversi, ma chi li vedeva insieme mentre trascorrevano infinite ore a parlare, sapeva che accadeva qualcosa di speciale ed è a loro che si deve il merito di aver capito il perché sbagliamo nel prendere decisioni.

Quello di Kahneman è un lavoro immenso, dedicato al collega scomparso: alla fine è tutta una questione di lentezza o di velocità.

Ci sono molti modi per mettere alla prova la nostra capacità decisionale, quello che propongo è un semplice indovinello, a cui occorre però rispondere d’istinto.

È tutta una questione di lentezza o velocità

Quando si tratta di pensare o di prendere una decisione si mobilitano nel cervello due sistemi: il sistema 1 (S1) e il sistema 2 (S2), dove S1 è intuitivo, impulsivo, adora saltare alle conclusioni, automatico, inconscio, veloce ed economico. S2 è invece consapevole, deliberativo, lento, spesso pigro, faticoso da avviare e riflessivo.

S1 e S2 non esistono nella realtà, sono una pratica analogia (un’etichetta), che ci aiuta a capire ciò che accade nella nostra testa. Per esempio, è grazie a S1 se riusciamo a completare velocemente e senza pensarci la frase «rosso di sera», ad allacciarci le scarpe senza veramente porre attenzione mentale all’azione stessa, notare che un oggetto è più lontano o vicino di un altro o ancora intercettare istantaneamente la paura sul volto di una persona e rispondere in pochi istanti alla domanda: «Qual è capitale della Francia?».

È merito di S2 se riusciamo a concentrarci sulla voce di una persona specifica in una stanza rumorosa e piena di gente. Se riusciamo a trovare la nostra macchina in un parcheggio affollato, a dettare il nostro numero di telefono, a compilare dei questionari, a fare dei calcoli matematici e a imparare poesie a memoria. Non sarebbe possibile svolgere compiti complessi come questi simultaneamente. Possiamo compiere più azioni insieme, ma solo se sono semplici e se richiedono scarso sforzo mentale.

Bias, euristiche e intuizioni

I due sistemi sono entrambi attivi durante il nostro periodo di veglia, ma se il primo funziona in modo automatico, il secondo si posiziona in una modalità in cui può fare il minimo sforzo e solo una piccola percentuale delle sue capacità viene utilizzata. Il suo Diktat è consumare meno calorie possibili.

Normalmente S2 segue i consigli di S1, senza apportare modifiche. Se però il Sistema 1 è in difficoltà, disturba il Sistema 2 affinché lo aiuti ad analizzare le informazioni e suggerisca una soluzione al problema. Allo stesso modo S2, quando si accorge che il suo compagno sta prendendo una cantonata, si attiva: per esempio quando vorresti insultare il capo, ma poi qualcosa ti blocca. Quel qualcosa è il Sistema 2.

Non sempre però S2 viene coinvolto nei giudizi del Sistema 1 e questo porta all’errore. Come? Proprio come è accaduto con l’indovinello proposto in apertura dell’articolo.

Se è indiscutibile che il Sistema 1 è all’origine della maggior parte dei nostri errori (ossia bias ed euristiche) è anche vero che produce tante “intuizioni esperte”, i riflessi automatici che sono essenziali nella nostra vita, per prendere decisioni importanti in poche frazioni di secondo.

Un chirurgo in sala operatoria o un vigile del fuoco di fronte a un incendio, grazie al Sistema 1 fanno scelte di vita e di morte per affrontare delle emergenze e molto spesso prendono la decisione giusta in quei pochi attimi. Il guaio è che S1 non conosce i propri limiti. Ha la tendenza a fare degli errori imperdonabili nella valutazione delle probabilità statistiche di un evento.

Generalmente usando il Sistema 1 sottovalutiamo il rischio che avvengano eventi rari di tipo catastrofico; salvo invece sovrastimare la probabilità che si ripresentino subito dopo che questi disastri sono accaduti.

Insomma, se da un lato ci aiuta a prendere un numero infinito di decisioni, la sua rapidità genera errori, proprio perché non analizza i dati a disposizione, in quanto questa operazione richiede tempo e lui preferisce saltare a conclusioni per indicarci celermente e senza sforzo la strada da prendere.

Il Sistema 1 è dunque facilmente influenzabile. Ecco che, per prevenire gli errori, ma soprattutto per proteggere le persone affinché non finiscano triturate a causa della volatilità del loro Sistema 1 o della lentezza del Sistema 2 nascono i nudge; la necessità di una spinta gentile che Kahneman cita come la bibbia dell’economia comportamentale «che indirizzi a fare la scelta giusta».

 

Sources

Lewis M., A Nobel friendship. Kahneman and Tversky, the meeting that changed the way we think, Raffaello Cortina Editore, Milan, 2017 pp. 165-166

Stanovich K., West R., Individual differences in reasoning: Implications for the rationality debate?, Behavioral and brain sciences (2000) 23, 645-726 http://pages.ucsd.edu/~mckenzie/StanovichBBS.pdf

Kahneman D., Slow and fast thinking, Mondadori, Milan 2016, p. 23.

CARO PRESIDENTE CONTE, TI SCRIVO…

Non si crea compliance, adesione alle norme sociali, usando la leva della paura e/o del divieto così come viene.  Lo sanno anche i muri. Gli unici ancora a non saperlo, mi viene da pensare (ma vorrei essere contraddetta) sono i nostri decisori…

E’ a questo che penso da mesi, stupita che nelle varie task force non ci siano esperti e profondi conoscitori anche delle Scienze comportamentali e/o dell’economia comportamentale o di Neuroscienze applicate alla Comunicazione. Non so se i nostri governanti ignorino l’importanza di queste discipline o preferiscano starci volutamente lontani per le ragioni che si possono ben immaginare.

Su questo rifletto mentre ascolto il video discorso di Emmanuel Macron, il presidente francese, risultato positivo al coronavirus giovedì

Sto bene, ho gli stessi sintomi di ieri: affaticamento, mal di testa, tosse secca come le centinaia di migliaia di persone che hanno convissuto o convivono con il virus. Continuerò a seguire gli affari ricorrenti anche se con un’attività un po’ rallentata. (…) Fate attenzione, tutti possiamo contrarre il virus”.

In una parola: rassicurante. Avvolgente. Empatico. Un messaggio non autoreferenziale, puntuale e descrittivo e al tempo stesso ingaggiante. Per chi mastica di bias… un buon uso del principio di riprova sociale. A tutti piace sentirsi parte di un gruppo, essere accettati e condividere preoccupazioni e speranze.

Difficile non fare un paragone, con il nostro Presidente del Consiglio e non della Repubblica (come freudianamente si lasciò sfuggire nel discorso dell’8 settembre) Conte che, quando si tratta di fare annunci, sembra ignorare le normali regole non solo delle Neuroscienze, ma della comunicazione base.

Stile dittatoriale, in un Paese democratico… la contraddizione è già evidente  così… forse quel lapsus è molto più predittivo, di quanto vorremmo credere!

Entrando nel merito, difficile dimenticare le sue frasi cult:

  • non cadremo nel baratro”, quando voleva, in pieno lockdown, tranquillizzare gli italiani, fa già tristezza così senza dover aggiungere altro…
  • il governo non lavora con il favore delle tenebre”,
  • meno libertà per tutelare la salute

In realtà, nei momenti di incertezza (che non piacciono a nessuno) servono regole chiare, indicazioni precise, coerenza e autorevolezza. Mi sembra che questi ingredienti siano mancati tutti o quasi. Chi si farebbe operare da un chirurgo che in sala operatoria prima di mettere mano ai ferri ci dicesse

“speriamo di non sbagliare approccio chirurgico, mi auspico che i miei colleghi seguano le procedure”.

Chi decide e guida, deve esprimere autorevolezza e direzione, non ulteriore incertezza.. o paure e preoccupazioni… Sperare e auspicare sono verbi che non fanno troppo bene alla nostra amigdala.

Ancor più i continui e non programmati divieti che ci vengono offerti come si fa con le caramella ai bambini ad Halloween. Non sapendo che altro fare, vieto… Non funziona neanche questo approccio: quando ci viene proibito qualcosa, la più comune delle reazioni è la reattanza, un fenomeno che consiste nel rifiuto di accettare regole che limitano i comportamenti individuali.

Quando ci si sente eccessivamente costretti in una direzione che non si condivide, l’unico risultato che si ottiene è il comportamento opposto.

Caro Conte, la prossima volta che le verrà voglia di creare un’altra task force, non ignori (per usare il suo stile comunicativo) le Neuroscienze, so che possono sembrare noiose, ma il Nobel è ancora un sigillo di sapere e autorevolezza, che piaccia o meno. Io, persone come Thaler e Kahneman le starei a sentire. E poi non dica che non l’avevo avvisata!