U 731: l’UOMO ANNIENTA se STESSO

U 731. E’ il comparto dell’esercito giapponese nel quale, durante la II guerra sino-giapponese e la II Guerra Mondiale, si consumarono terrificanti atrocità nel nome di un folle progetto: trovare l’arma finale (chimica e batteriologica) che garantisse la supremazia definitiva del Giappone sul mondo.

Mente di tutto questo: Shiro Ishii (famoso per aver debellato, con uno speciale filtro per l’acqua, un’epidemia di meningite). Ishii si convinse di poter dare una mano al proprio paese con le ricerche su un nuovo tipo di guerra: quella batteriologica. Scienza, medicina, biologia e tecnologia combinate insieme potevano permettere al Giappone di vincere il conflitto, pur non potendo competere in armamenti, produttività e risorse con nazioni come Stati Uniti o Unione Sovietica.

Nacque così l’Unità 731. Nei campi di prigionia giapponesi, il repertorio di Ishii prevedeva: vivisezione senza anestesia, congelamento e amputazione degli arti. Alle vittime venivano ricucite gambe e braccia amputate, su altre parti del corpo per testare la resistenza dei soggetti a ustioni, elettroshock e gelo fino alla morte.

Alcuni prigionieri furono esposti a temperature di -20°C, fin quando le loro braccia congelate, colpite da un bastoncino, non emettevano un rumore simile a quello di una tavola in legno. Dopodiché venivano prima immerse nell’acqua bollente e dopo la loro pelle veniva strappata come carta.

Altri raccontano di un esperimento di inoculazione del virus della peste su 12 cavie; solo una persona sopravvisse per 19 giorni, per poi venire vivisezionata.

Per testare le armi spesso venivano posizionati a diverse distanze da una granata, che poi veniva fatta esplodere. Anche i bambini non venivano risparmiati. Per lo sviluppo di nuove armi biologiche venivano usati come cavie i cinesi. Gli aerei a bassa quota bombardavano città e villaggi nemici con pulci infettate con la peste.

Il problema, in quel caso, fu che le pulci infettarono anche le stesse truppe giapponesi, provocando la morte di 1.700 soldati perciò, dopo il primo tentativo, l’esperimento fu interrotto.

Le vittime degli esperimenti con armi batteriologiche fatti in Cina si stima siano state più di 200 mila. D’altronde Mao diceva: la bomba atomica non mi spaventa. Di cinesi ne ho talmente tanti.

Perché avrebbe dovuto avere paura della guerra batteriologica?

A Ishii, graziato per aver condiviso informazioni sulle sue ricerche con i vincitori della guerra, fu consentito di continuare le ricerche fino al 1959, quando morì per cause naturali a 67 anni. Le sue ricerche hanno reso il Giappone leader mondiale nella guerra batteriologica. Un triste primato.

DIRE ADDIO

Le ultime ore della sua vita, poco prima che facesse giorno, mia madre mi chiese con fermezza: “poni fine al mio dolore”. Qualsiasi cosa dicessi, ripeteva “fallo smettere”. A ogni tocco, leggero, mi implorava “aiutami a morire”.

Mia madre aveva un tumore osseo e metastasi diffuse.

Eravamo in ospedale. Era ottobre, ma non ricordo se fuori facesse caldo o piovesse o se gli alberi avessero iniziato a perdere le foglie. Ci trasferivamo da un reparto all’altro, senza sapere cosa succedeva al di fuori. Tutti i giorni erano uguali.

C’erano drenaggi di ogni tipo, l’ossigeno, e flebo che si susseguivano l’una all’altra. Infermieri, medici, farmaci e morfina. C’era un campanello che mia madre suonava al bisogno, a cui ricorreva sempre meno; in preda al dolore, incapace di mettersi seduta nel letto, incapace di respirare. Non camminava più, l’unica cosa che le restava, nei momenti migliori, una poltrona in cui trovare dignità.

L’ultima volta che vi ricorse, fu per cercare il cielo, poi chiuse gli occhi. Un silenzio disatteso, a rompere il silenzio.

In quel reparto, in quegli ultimi giorni, ho trascorso accasciata sulle sedie di plastica, un numero imprecisato di ore. Che paiono, ora, inique. L’ultima notte, nel mio letto. Mia madre mi aveva spinto a tornare a casa; era tranquilla, come sanno essere le persone che sono già altrove.

Non credo ci sia una parola per descrivere la sensazione che si prova quando qualcuno sta morendo. Certo, molte sono le emozioni, ma ciò a cui mi riferisco è quella che pervade la fine. La sensazione degli ultimi giorni. È un sentimento fatto di desideri opposti. Quello dell’attesa e dell’immediatezza. Del volere che il tempo rallenti e del volere che il tempo acceleri. Di volere, e allo stesso tempo non volere affatto, che tutto finisca.

Pur avendo fatto della scrittura un lavoro, non ho mai scritto di mia madre. Per la paura di venir sommersa. Dalle profondità in cui annegano i sopravvissuti.

Il sentimento di quegli ultimi giorni era quello di un ritiro dal mondo, di un isolamento. Difficile riappacificarsi con il suo opposto, l’amore. O forse, l’amore è l’addio alla vita. Ma non ci è dato scegliere il momento.

Quell’ultima alba, con il sole che sorgeva e la città tornava a vivere, mia madre chiese “fa che il dolore finisca” e per quella volta, forse l’unica fra tutte, l’ho amata davvero, assecondandola.

Di queste cose avrei voluto scrivere spesso, ma non potevo. Ogni anno, di questi giorni, pensieri affollavano il cuore e io non facevo altro che allontanarli. Ma quel richiamo è insistente. Si è rifiutato di scomparire per 31 anni. Mentre scrivo, mi rendo conto che non è la storia di mia madre quella che sto narrando. Ma del fatto che per saper dire addio occorre saper amare profondamente. Sto scrivendo cosa significa amare qualcuno e perderlo ma sentirsi così infinitamente fortunati da averlo vissuto, quell’amore. Smettendo di condannarlo.

Forse, è questo il mistero della scrittura. O dell’amore.

MEGLIO un’AZIENDA con o senza CAPO?

Per molti può essere pacificante pensare di lavorare in un’azienda dove non solo non ci sono capi e subalterni, ma dove a regnare è una sorta di autogestione in cui ognuno è manager di sé stesso. O meglio tutti sono employeneurs, crasi fra employee e entrepreneur, un mix fra un dipendente e un imprenditore autonomo nelle decisioni.

Sembrerebbe, vista così, la soluzione perfetta per porre fine a soprusi, soprattutto umorali del capo, a battaglie infinite per fare carriera, a prevaricazioni e favoritismi. Peccato che la realtà si discosti dall’idea che ci facciamo delle cose, soprattutto di quelle che più desideriamo, più di quanto ci piace credere.

Non a caso, i risultati che la logica della self governance aveva promesso, iniziano a venir disattesi, come i ricercatori e docenti di strategia della Copenhagen Business School, della Hankamer School of Business e della Baylor University, hanno dimostrato (dopo aver esaminato le organizzazioni senza manager che sono state proposte – e occasionalmente adottate – negli ultimi 50 anni).

SELF GOVERNANCE PUNTI DI FORZA

L’adozione dell’approccio “senza capo” si può sintetizzare in 5 punti:

  1. Gestione personale del tempo. Si lavora per risultati, ognuno con specifiche responsabilità, pertanto nessuno controllerà quanto si sta dietro una scrivania, quindi il tempo si può gestire a proprio piacimento, purché si portino risultati.
  2. Trasparenza e fiducia. In un’azienda che segue il principio della self governance, i dipendenti hanno accesso a tutte le informazioni della compagnia, compresi conti e bilancio. L’azienda è quindi trasparente. Il che dovrebbe comportare un grande clima di fiducia tra i lavoratori, che condividono anche valori e obiettivi.
  3. Collaborazione tra colleghi. L’organizzazione in team autonomi e paritari, senza capi su cui fare affidamento e sui quali scaricare colpe e responsabilità di qualsiasi malfunzionamento, favorisce la responsabilità personale e la collaborazione.
  4. Confronto. Nella maggior parte delle aziende gestite tradizionalmente esiste spesso una grande distanza tra ceo e dipendenti. Nelle aziende senza capo, invece, c’è un dialogo continuo e una condivisione di idee e punti di vista, che aiutano il buon funzionamento aziendale. Anche dal punto di vista finanziario.
  5. Migliori performance. Secondo “The How Report” di LRN (Learning Resource Network), nelle aziende senza capo il clima favorevole sul posto di lavoro aumenta la produttività, garantendo migliori performance. I casi di cattiva condotta nelle aziende basate sulla self governance sono rarissimi. E questo genera anche maggiore soddisfazione da parte dei clienti, con migliori performance di mercato.

Insomma, la self governance sembra che faccia bene non solo ai lavoratori, ma anche al bilancio.

LE NUOVE EVIDENZE

I ricercatori hanno raggruppato le teorie di Gary Hamel, Michele Zanini e Frederic Laloux e gli approcci alla gestione decentralizzata, come l’olocrazia e l’agile, sotto il termine di “bossless company narrative”, narrativa aziendale senza capo, sostenendo cheLe aziende quasi senza boss – e non ce ne sono molte – non sono generalmente o in modo dimostrabile migliori di quelle tradizionalmente organizzate. I capi contano, non solo come prestanome, ma come designer, organizzatori, incoraggiatori ed esecutori“.

Foss e Klein, questi i nomi dei due ricercatori, hanno dettagliato con grande precisione le loro conclusioni contro la narrativa aziendale senza boss, pur sapendo quanto sia di difficile da contestare, specialmente nell’ambito delle grandi imprese.

Schemi come l’olocrazia, in cui le decisioni sono prese dai team, possono funzionare per piccole aziende con proprietà distribuita, ma non nelle grandi come, ad esempio, Zappos, che hanno molti più dipendenti e richiedono forte coordinamento. Anche l’agilità tende a funzionare più nell’esecuzione di progetti che nella gestione di intere organizzazioni.

Pur evidenziano le promesse disattese della self governance, gli autori, riconoscono le sfide e le opportunità create da questo approccio. “Siamo d’accordo sul fatto che ci sia la necessità di una ridefinizione del ruolo di gestione tradizionale“. Su una cosa però sono fermamente convinti “Ogni azienda deve ridefinire la propria struttura di gestione  e i propri ruoli, per se stessa. (…) Quando si tratta di struttura organizzativa, non ci sono soluzioni valide per tutti“. Ecco perché non ci si deve buttare a capofitto su soluzioni alla moda, e studiare cosa è più utile per il contesto specifico in cui si opera.

LA MIGLIORE GERARCHIA

Qual è, dunque, la dimensione e la forma gerarchica che meglio si adatta alla propria azienda?

La chiave è trovare il giusto mix di due forze, spesso opposte. “La prima è il desiderio, comune a tutti noi, di empowerment e autonomia, che aiuta le aziende a stimolare la creatività dei dipendenti e sfruttare le loro conoscenze e capacità uniche. La seconda è il fatto che gli ambienti caratterizzati da rapidi cambiamenti spesso richiedono che ci sia una gerarchia chiara e definita, in particolare quando le attività sono interdipendenti e le persone da sole non possono apportare gli adeguamenti richiesti“.

Trovare il giusto mix richiede di pensare a come ripartire l’autorità. “L’autorità ha molte facce. Autorità può significare il diritto di assumere e licenziare, istruire, supervisionare, intervenire e sanzionare. Ma l’esercizio dell’autorità manageriale è associato anche ad altri comportamenti: guidare, creare strutture e processi, forgiare il consenso, allineare il comportamento attorno a obiettivi condivisi e promuovere il cambiamento“.

Gli autori etichettano il primo insieme di comportamenti come autorità “Mark I” e il secondo come autorità “Mark II”. I manager dovrebbero essere autorizzati e preparati a esercitare entrambi, ma c’è di più. “Esercitare l’autorità in modo intelligente significa capire quali decisioni delegare, chi mettere in posizioni chiave e quando intervenire, oltre a decidere se il sistema deve essere rivisto in risposta alle mutevoli condizioni“.

Il modo in cui un’azienda risponde a queste domande definisce la sua gerarchia. “Per rispondere correttamente è necessario considerare diversi fattori, tra cui la velocità del processo decisionale, la conoscenza dei dipendenti, la giustizia procedurale, ecc”. Ad esempio: “Se il tempo è essenziale, se c’è un alto grado di urgenza decisionale, allora l’alternativa migliore è spesso avere top manager che prendono decisioni senza cercare e aspettare il consenso“.

In definitiva, il messaggio è che la narrativa aziendale senza capo è altrettanto imperfetta della versione di comando e controllo della gestione di Frederick Taylor. I manager contano e continueranno a contare, ma i loro ruoli cambieranno nel tempo. “Quello che vogliamo“, dichiarano Foss e Klein, “è una gerarchia ben funzionante“.

Insomma, prima di abbracciare un movimento, per quanto allettante e stimolante sia, mettiamolo in discussione quel tanto che basta per capire se fa al caso nostro e se ne abbiamo davvero bisogno. In quel momento.

12 Ottobre ’23 – Workshop su “Neurobufale: falsi miti e luoghi comuni sulle Neuroscienze” – EMCC Italia

Giovedì 12 Ottobre alle ore 18,30, Workshop “Neurobufale: falsi miti e luoghi comuni sulle Neuroscienze“. EMCC Italia – European Mentoring & Coaching Council

Neurobufale: falsi miti e luoghi comuni sulle Neuroscienze – EMCC Italia

Prendere DECISIONI COMPLESSE è come giocare a SCACCHI… anzi, più difficile!

Prendere decisioni semplici è un po’ come ordinare al ristorante: si valutano le opzioni disponibili e poi si sceglie quella che promette di offrire la massima gratificazione.

Quando si tratta di scelte complesse, come acquistare una casa, ideare un business plan o valutare le polizze assicurative, identificare oggettivamente l’opzione migliore è poco pratico e spesso impossibile.

La scelta di un piano di assicurazione sanitaria, ad esempio, richiede la stima della probabilità di aver bisogno o meno di una biopsia o di un’appendicectomia, un gioco di indovinelli a più livelli che sarà inevitabilmente pieno di errori.

La stessa cosa vale quando si deve scegliere una strategia di marketing: ogni potenziale mossa apre la porta a una miriade di reazioni da parte di clienti e competitors, portando a milioni di possibili scenari, ognuno dei quali il decisore può prevedere solo in modo imperfetto.

Quindi cosa occorre fare quando, in un processo decisionale, le alternative disponibili sono così complesse da non capire quanto valga ogni opzione?

A cercare di rispondere, i ricercatori della Kellogg School, avvalendosi di un laboratorio insolito: la scacchiera.

Utilizzando dati di 200 milioni di mosse da una piattaforma di scacchi online, i ricercatori sono arrivati a nuove conclusioni su come i giocatori trovano la loro strada attraverso la complessità.

Hanno scoperto che rallentare aiuta ma che i più bravi necessitano di molto più tempo decisionale extra rispetto i meno esperti. E contro intuitivamente che, aggiungere un’opzione mediocre, può essere peggio che aggiungerne una pessima.

Come i giocatori di scacchi prendono decisioni

Gli scacchi hanno diverse caratteristiche che li rendono perfetti per studiare le decisioni complesse.

La qualità di ogni mossa può essere classificata oggettivamente. A differenza di un piano assicurativo o di una strategia di marketing, dove misurare e classificare accuratamente ogni singola alternativa è raramente possibile, alcune mosse degli scacchi possono essere chiaramente identificate come parte di una strategia vincente: mosse che garantiranno una vittoria, indipendentemente da ciò che fa l’avversario. Allo stesso modo in caso si voglia un pareggio o una sconfitta.

Per quanto bizzarro, il gioco degli scacchi è riconducibile a mosse vincenti e non, predefinite, come dimostrato più di un secolo fa dal matematico tedesco Ernst Zermelo.

Eppure, nonostante ci sia la possibilità di valutare oggettivamente ogni mossa, la natura del gioco spesso rende difficile anche per i giocatori esperti distinguere una buona mossa da una cattiva. Di conseguenza, il modello standard del processo decisionale, in cui una persona valuta le opzioni una per una e poi seleziona l’alternativa migliore, in genere non si applica. L’enorme numero di mosse disponibili rende impossibile valutare ogni opzione (specialmente negli scacchi di velocità).

Pertanto, i giocatori in genere considerano solo un piccolo sottoinsieme di tutte le opzioni possibili e scelgono la prima che considerano abbastanza buona, cioè la prima mossa che credono produrrà una vittoria, una strategia che gli economisti chiamano “soddisfacente”.

Dato che molte decisioni del mondo reale richiedono anche un approccio soddisfacente, i ricercatori della Kellogg School hanno pensato che studiare come i giocatori si muovono sulla scacchiera, aiuti a capire meglio le dinamiche del processo decisionale complesso.

Un database monumentale di mosse scacchistiche

I dati presi in esame provengono da Lichess.org, uno dei più grandi server di scacchi online del mondo. Il database comprende otto anni di giochi, centinaia di milioni di mosse di centinaia di migliaia di giocatori (hobbisti e grandi maestri).

È importante sottolineare che i dati dicono non solo quale pezzo si è mosso e dove, ma la configurazione completa in ogni momento di gioco.

I ricercatori si sono concentrati su ciò che i giocatori chiamano “endgame”: scenari con un numero limitato di pezzi rimasti sulla scacchiera, e dove entrambi i giocatori stanno tentando lo scacco matto. In particolare, scenari con meno di sei pezzi sono stati utili perché sono stati “risolti” usando i computer, cioè per qualsiasi configurazione di sei pezzi sulla scacchiera, gli informatici hanno catalogato tutte le possibili mosse e come si inseriscono in una strategia che può garantire una vittoria, una sconfitta o un pareggio.

Ma ottenere i dati sulle mosse effettive è stato solo l’inizio. Per ogni finale, Salant e Spenkuch, questi i nomi dei due ricercatori, dovevano determinare tutte le possibili mosse che il giocatore avrebbe potuto fare, e se ognuna di queste era vincente, perdente o un pareggio.

Un lavoro di ricerca enorme, che ha richiesto 600.000 ore e dati contenenti 4,6 miliardi di ipotetiche mosse.

Chi prende la decisione giusta in situazioni complesse?

Gli studiosi hanno iniziato osservando come il grado di complessità influisse su quali opzioni venivano scelte.

Il modello economico standard di scelta prevede che le mosse vincenti più complesse (quelle che richiedono più passaggi intermedi per ottenere uno scacco matto) dovrebbero essere scelte più frequentemente rispetto alle mosse vincenti meno complesse. Salant e Spenkuch scoprirono che questo non era il caso negli scacchi: maggiore era la complessità di una mossa vincente, meno frequentemente veniva scelta, presumibilmente perché il percorso verso la vittoria era più confuso.

I ricercatori hanno scoperto poi che il livello di abilità di un giocatore influenza il processo decisionale: i migliori giocatori al mondo avevano meno probabilità dei meno esperti di commettere un errore. Divario che si è fatto via via più pronunciato con l’aumentare della complessità delle mosse vincenti, suggerendo che l’esperienza dei migliori giocatori li avvantaggiava maggiormente in scenari particolarmente difficili.

 I livelli di abilità dei giocatori hanno anche influenzato il modo in cui si sono comportati sotto la pressione del tempo. Prevedibilmente, i giocatori titolati hanno commesso meno errori rispetto ai non professionisti, indipendentemente da quanto tempo è stato dato loro per scegliere le mosse.

Ma la differenza era minore nelle varietà più frenetiche di scacchi di velocità che si concludevano in pochi minuti. Nelle partite più lente, quando il tempo di decisione era meno limitato, i giocatori non professionisti erano considerevolmente più propensi a fare una mossa sbagliata. A beneficiare maggiormente del tempo, per pensare, sono i giocatori esperti.

Interessante è notare come i giocatori non sembravano in difficoltà di fronte al “sovraccarico di scelte” quando affrontavano un gran numero di mosse possibili: in realtà commettevano meno errori quando erano disponibili più mosse, probabilmente perché gran parte delle alternative in questi scenari erano mosse vincenti.

In pratica, per usare le parole dei ricercatori “Puoi aggiungere tutte le mosse vincenti che vuoi. Ciò non comporterà ulteriori errori. Se vuoi rendere il problema il più difficile possibile, devi aggiungere opzioni che non sono ottimali ma abbastanza vicine ad essere ottimali“.

Navigare nella complessità nel mondo reale

Per i ricercatori, “in ambito aziendale, è importante capire come le persone prendono decisioni a livello elementare“. Questo dice molto di come si approcceranno a quelle complesse. Ovviamente, il contesto lavorativo è più articolato di quello di un tavolo da gioco, a meno che ci si stia giocando i guadagni di una vita, o la vita stessa.

Tuttavia, ci sono lezioni che possono essere utili:

  • I leader aziendali non dovrebbero presumere che un dipendente con le migliori prestazioni sceglierà l’opzione giusta in una crisi, in una frazione di secondo, ad esempio, poiché i dati degli scacchi suggeriscono che i benefici dell’esperienza svaniscono quando c’è scarsità di tempo.
  • Non necessariamente una soluzione sarà quella scelta, senza contare che in questi casi, il paradosso delle scelte (troppe scelte, nessuna scelta), pare spingere a cercare la soluzione soddisfacente, anziché abbandonare il processo decisionale, come invece avviene nelle scelte semplici.

Forse queste ricerche ci aiuteranno meno di quello di cui avremmo bisogno di fronte a situazioni complesse, ma forse il bello della sfida è proprio questo: non c’è una soluzione preconfezionata. La possibilità di pensare. E al giorno d’oggi, non è poco.

AMBASCIATOR porta PENA (soprattutto in caso di cattive notizie)

Una condizione che caratterizza molte delle mie esperienze lavorative è dare cattive notizie. Prima in campo sanitario, poi all’università e infine nelle organizzazioni.

Non ci avevo fatto caso fino a qualche giorno fa, quando mi sono trovata a comunicare cattive nuove per conto terzi. E come spesso accade, ho toccato con mano quanto ambasciator non porta pena, sia un detto che nel tempo ha perso molta della sua validità.

Più portiamo cattive notizie, meno ci apprezzeranno. E a dirlo è la scienza!

 “Nella maggior parte dei casi, si tende a considerare come soggetti negativi coloro che sono portatori di cattive notizie”, sostiene lo staff del Journal of Experimental Psychology, dopo 11 esperimenti condotti sul tema.

Uno di questi ha coinvolto pazienti sottoposti a biopsia per sospetto tumore. Per comunicare loro l’esito positivo o negativo dell’esame è stato organizzato un incontro a cui erano presenti due infermiere, una con il compito di comunicare la diagnosi e l’altra per prendere un successivo appuntamento. Nel momento in cui è stato chiesto alle persone che hanno ricevuto cattive notizie di fornire un giudizio sulle due infermiere, soltanto l’infermiera “messaggera” è stata giudicata meno simpatica e meno competente.

Il giudizio negativo verso una persona che ha il compito di comunicare una notizia risulta anche in situazioni in cui è palesemente chiaro che il messaggero non ha alcuna responsabilità sull’evento negativo.

Lo scenario tipico? Quello dell’assistente di volo che viene chiamato a informare i passeggeri in attesa che, a causa di un problema tecnico, la partenza sarà ritardata.

EFFETTO MUM

Portare cattive notizie è dunque un lavoro ingrato, non a caso forte è il rischio di cadere vittime dell’effetto MUM, minimizing unpleasant messagge.

Avversione a dare cattive notizie che è determinata non solo dal fatto che si vuole proteggere il destinatario del messaggio, ma anche dalla paura che l’interlocutore si arrabbi o pensi male di noi, dalla necessità di non venire associati all’evento negativo e essere considerati meno attraenti.

Tale effetto porta quindi a minimizzare i messaggi spiacevoli, a trattenere informazioni negative e a modificare le comunicazioni per farle sembrare positive. Il problema è che alla fine il messaggero rischia di distorcere la realtà. Pensiamo all’effetto in un’organizzazione in cui ogni dipendente decide di alleggerire le notizie negative. Man mano che le informazioni si diffondono, il messaggio si allontanerà sempre più dalla verità.

SPACE SHUTTLE CHALLENGER

Il pericolo dell’effetto MUM nelle organizzazioni è stato studiato dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman, esaminando i passi che hanno portato all’esplosione dello space shuttle Challenger del 1986. Quando Feynman ha chiesto agli ingegneri quale pensavano fosse la probabilità di guasto al motore, hanno riferito tra 1 su 200 e 1 su 300. Tuttavia, quando Feynman ha posto la stessa domanda al capo della NASA, la risposta è stata 1 su 100.000. Queste cifre mostrano una grande discrepanza; è probabile che gli ingegneri abbiano reso le loro stime più favorevoli quando hanno riferito ai loro responsabili, che poi hanno anche abbellito le stime, e così via fino a quando i dati hanno raggiunto il capo della NASA. Quando le informazioni negative vengono continuamente distorte mentre salgono di livello, i decisori finiscono per ricevere informazioni inesatte. L’effetto MUM potrebbe aver giocato un ruolo significativo nella tragedia. Evidentemente, può avere conseguenze devastanti.

CROSS CULTURE E MUM EFFECT

Al disastro dello shuttle Challenger, che fu il risultato di una comunicazione imperfetta e di dinamiche di potere sbilanciate tra parti che condividevano tratti culturali simili, si aggiunge lo schianto del Volo Avianca 52 (un volo di linea da Bogotà a New York) nel 1990. Le cause sono da ricercarsi nella mancata condivisione di dati sul basso livello di carburante tra piloti e controllori e da incomprensioni sulla procedura di emergenza da seguire, a cui si aggiunse il problema di norme sociali intrinseche, come la difficoltà di mettere in aperta discussione l’autorità del personale più anziano (elevata distanza dal potere, tipica delle culture latino-americane).

A questo punto, seppur le cattive notizie non piacciano, quanto possiamo o un’organizzazione può permettersi il lusso di ignorare?

Il costo della comunicazione “apprensiva” può essere alto. Come affermò Sir Alec Guinness “Non ho mai saputo che le cattive notizie migliorassero evitandone la condivisione”.

18 Settembre ’23 – Seminario “Come prendere decisioni in un mondo complesso e non ordinato” – Board Ahead

Lunedì 18 Settembre alle ore 8, Seminario Come prendere decisioni in un mondo complesso e non ordinato, Board Ahead, Comunità di pratica per la buona Corporate Governance

MENO E’ MEGLIO… anche quando si scrive

Quando scrivete una mail, un sms o registrate un vocale su whats’app quanto rispettate la regola del “meno è meglio”? 

Una delle convinzioni che spesso fanno deragliare i nostri migliori buoni propositi è che “di più è meglio”, perché pensiamo che scrivere tanto ci faccia sembrare più intelligenti o perché abbiamo tante cose da dire. Oppure temiamo che l’essere troppo concisi, ci costringa a tralasciare informazioni importanti.

Qualunque sia la causa, il risultato che otteniamo non è solo quello di tediare l’interlocutore, ma addirittura spingerlo a non leggere ciò che gli inviamo.

Facciamo una prova: se aprendo la casella di posta dovessi scegliere fra queste due e-mail, solo basandoti su oggetto e mittente, quale leggeresti per prima?

Probabilmente quella più corta.

Ciò che facciamo, è interpretare la lunghezza di un messaggio come un’indicazione di quanto sarà difficile e dispendioso in termini di tempo rispondere, il che è un altro motivo per cui scegliamo di non impegnarci in una comunicazione prolissa.

In uno studio, sono state inviate due versioni di un’e-mail a 7.002 membri dei consigli scolastici negli Stati Uniti chiedendo loro, nell’ultima riga, di completare un breve sondaggio online. Un’e-mail conteneva 127 parole; l’altra 49 parole.

L’ e-mail con 49 parole ha prodotto quasi il doppio delle risposte al sondaggio: un tasso di risposta del 4,8% vs 2,7%.

Molti hanno guardato la lunghezza dell’email di 127 parole scegliendo di non interagire. Altri non l’hanno letta fino in fondo e non hanno colto la richiesta finale (rispondere al sondaggio). Inoltre, alcuni potrebbero aver utilizzato la lunghezza dell’e-mail come indicatore del tempo che ci sarebbe voluto per completare il sondaggio e risultando dispendioso hanno deliberatamente ignorato la richiesta.

Entrambe le e-mail indirizzavano i destinatari allo stesso identico sondaggio, il cui completamento richiedeva circa cinque minuti.

La maggior parte di chi riceve un’email, ma soprattutto quelli che hanno poco tempo, rischiano di essere scoraggiati da messaggi e richieste che si aspettano difficili e onerose da gestire.

Coloro che abbandonano anzitempo un lungo messaggio potrebbero, dando una scorsa al testo, decidere che è troppo faticoso da affrontare in quel momento – troppi argomenti, azioni o parole richieste –, sperando o ripromettendosi di ritornarci sopra più tardi.

Alcuni in realtà non riprenderanno più la lettura del testo. Altri sì, ma a quel punto potrebbero aver perso una scadenza o qualche informazione ormai inutilizzabile.

In media, un messaggio prolisso verrà trattato meno rapidamente di un messaggio breve. Nel peggiore dei casi, un messaggio prolisso sarà relegato allo stesso destino delle centinaia di altri messaggi che languono nelle caselle di posta, per non essere mai lette.

PAGARE DAZIO

Anche quando vengono lette, le comunicazioni impongono un sacrificio: più lungo è il messaggio, maggiore è l’impegno, lo sforzo, il tempo, ecc.

Immagina di ricevere 120 e-mail ogni giorno, ciascuna lunga tre paragrafi. Leggerle integralmente richiederebbe quattro ore.

Oppure capovolgi la situazione e immagina di inviare un messaggio di tre paragrafi a 120 dipendenti della tua organizzazione.

Ogni destinatario impiega in media due minuti per leggere quello che hai scritto. Tra i 120 dipendenti, il tuo messaggio realizzato con cura e attenzione, imporrà un impegno di quattro ore totali. Se riducessi la lunghezza di un solo paragrafo, risparmieresti 80 minuti totali di tempo dei dipendenti.

Scrivere in modo conciso richiede una spietata volontà di tagliare parole, frasi, paragrafi e idee non necessarie. Può essere difficile cancellare le parole che si è impiegato del tempo a buttare su carta. Ma farlo aumenta le possibilità che il tuo pubblico legga ciò che scrivi.

Nancy Gibbs, ex caporedattrice della rivista Time, direbbe al suo staff che “ogni parola deve guadagnarsi il suo posto in una frase, ogni frase deve guadagnarsi il suo posto in un paragrafo e ogni idea deve guadagnarsi il suo posto in un testo”.

SCRIVERE NON E’ PER TUTTI

La maggior parte di noi non è mai stata addestrata a scrivere in maniera concisa E la maggior parte di noi non è stata nemmeno addestrata all’abilità di editing.

Infatti se pur nella stesura del testo non ci siamo dilungati troppo, tendiamo a recuperare nel momento dell’editing: aggiungendo contenuti anziché rimuoverli. In uno studio condotto dai ricercatori dell’Università della Virginia, ai soggetti del test è stato chiesto di leggere e riassumere un breve articolo sulla scoperta delle ossa di re Riccardo III sotto un parcheggio a Leicester, in Inghilterra.

Dopo aver completato il riassunto, è stato chiesto loro di modificarlo e di migliorarlo: l’83% dei partecipanti allo studio ha aggiunto parole. Lo stesso modello si è manifestato in argomenti che vanno dagli itinerari di viaggio ai brevetti: tendiamo ad aggiungere idee anziché sottrarle o rimuoverle nel processo di modifica.

Lo sforzo aggiuntivo richiesto per scrivere in modo efficace è un investimento. È più probabile che si trovi il tempo per interagire a messaggi brevi, ben strutturati e facili da leggere.

Dedicare un po’ più di tempo in anticipo per essere concisi fa risparmiare tempo agli interlocutori e ai mittenti riducendo i follow-up, le incomprensioni e le richieste lasciate insoddisfatte.

La prossima volta che dovete scrivere, pensateci!


 FONTI

QUANDO la PROMOZIONE SFUMA di un SOFFIO (per colpa di un mancato sponsor … forse)

Eri strasicuro, la promozione, per cui tanto ti eri dato da fare, era in arrivo, non a caso il capo ufficio più volte aveva portato ad esempio il tuo impegno, e l’AD ti aveva elogiato pubblicamente per come avevi gestito un progetto con un cliente importante.

Ma poi le cose sono andate diversamente…

Pur riflettendoci, non riesci a capacitarti di cosa sia andato storto, non ci sono stati da parte tua errori evidenti, mancanze… anzi. Tutto il contrario.

E se l’errore fosse stato quello di non saper distinguere fra i tuoi sostenitori, fan per usare un gergo moderno, e coloro che hanno un reale impatto sulla tua crescita professionale?

I fan sono persone che hanno una visione positiva di un dipendente, di un collega, ma non sono personalmente coinvolte nel successo di quell’individuo. Puoi avere dei fan, come l’ad, e un mentore, il capo ufficio, ma non avere degli sponsor.

CHI E’ UNO SPONSOR

Uno #sponsor è qualcuno che ha investito personalmente nella carriera di un dipendente e che dispone anche di sufficiente potere per influenzare decisioni aziendali come promozioni e aumenti.

In questo caso, l’errore è aver pensato che il capo ufficio fosse lo sponsor, ignorando più o meno consapevolmente che avesse anche titolo nell’organizzazione per sostenerne la promozione.

Non tutti hanno uno sponsor ma, per il successo professionale a lungo termine, averne è fondamentale. Ecco perché è importante saperli individuare e coltivare.

Occupandosi di comportamento organizzativo non è raro trovarsi a gestire situazioni di questo tipo.

Per non rimanere delusi, limitare i danni e utilizzare al meglio sforzi, risorse e capacità occorre essere in grado di distinguere e individuare chi può essere per noi solo un sostenitore e chi invece ha sufficiente potere e ruolo per prendere decisioni che ci riguardano.

Per semplificare, possiamo classificare il mondo del lavoro in quattro tipologie: fan occasionali, superfan, mentori e sponsor.

FAN OCCASIONALI E SUPER FAN

Hanno una visione positiva di un dipendente ma non si sentono personalmente responsabili del suo successo. Se qualcuno chiede loro informazioni su una determinata persona, diranno cose carine ma non si impegneranno a sostenerla. Né i fan occasionali né i super fan faranno qualcosa per supportare il dipendente. Nel nostro esempio, l’amministratore delegato era un superfan: sebbene fosse disposto a lodare il dipendente pubblicamente, non era personalmente coinvolto nel suo successo al punto da sostenerne la promozione.

Spesso confondiamo fan e superfan con gli sponsor.

MENTORI

Investono nello sviluppo del dipendente molto più di un fan. Si preoccupano di aiutare un individuo ad avere successo, ma non hanno il potere necessario nell’organizzazione per assumere un ruolo di sponsorizzazione. La differenza fondamentale tra sponsor e mentori è che, con uno sponsor, il focus della relazione è nel sostenere la progressione di carriera di un individuo e, con un mentore, l’enfasi è sullo sviluppo del dipendente come persona e professionista.

Mi è capitato di lavorare con un giovane professionista che credeva, impropriamente, che il senior manager a cui riferiva, fosse uno sponsor forte, perché spesso lo portava a pranzo, lo presentava a persone di alto livello e lo indirizzava su come affrontare situazioni interpersonali difficili sul lavoro. Tuttavia, quando si trattava di inserirlo in progetti prestigiosi, non aveva sufficiente potere e ruolo per farlo.

SPONSOR

Gli sponsor sono come i super fan in quanto parlano apertamente delle prestazioni di una persona, ma possono usare il loro ruolo e potere nell’azienda per avanzarne la carriera. Il ruolo di uno sponsor è investire nello sviluppo del dipendente. La sponsorizzazione può assumere la forma dell’inclusione intenzionale della persona in team desiderabili, garantendo l’accesso su progetti in linea con i suoi interessi e consentendogli di acquisire le competenze necessarie per l’avanzamento di carriera.

Una trappola comune per molti è presumere che solo i dirigenti senior possano essere, di default, sponsor efficaci. Sebbene le aziende abbiano spesso programmi formali di mentoring, la sponsorizzazione tende ad essere informale e organica, quindi le conversazioni sincere sono importanti per confermare il livello di investimento e supporto personale di un potenziale sponsor.

Il modo in cui gli individui vengono supportati o meno da manager e leader nelle loro organizzazioni ha un impatto diretto sul successo lavorativo e sulla carriera.

Le risorse umane hanno un ruolo importante in tal senso. Possono e devono aiutare i dipendenti a identificare le persone nell’organizzazione che possono migliorare le loro prospettive di carriera. Questo vale per tutti ma soprattutto per quei professionisti che sono i primi, nelle loro famiglie, a lavorare in un contesto aziendale o di servizi professionali. Spesso non hanno nessuno che possa consigliarli e rischiano più di altri di confondere sponsor con mentori.

Anche se un leader si considera un paladino della diversity and inclusion, questo non lo trasforma automaticamente in sponsor, ma in mentore. Con tutto quello che questo può comportare.

LA FIDUCIA

La fiducia è una parte importante della creazione di una relazione di supporto e uno dei modi in cui le persone costruiscono fiducia con gli altri è essendo affidabili. Trovare il tempo per fornire supporto quando è necessario crea fiducia. I migliori mentori e sponsor forniscono soluzioni concrete, feedback che contribuiscono alla crescita e allo sviluppo di un dipendente.

Potrebbe non essere sempre ciò che l’individuo vuole sentire, ma spesso può essere ciò di cui ha bisogno.

Non esiste un mix perfetto di tipi di supporto in un’organizzazione. Soprattutto a inizio carriera. Ciò che si dovrebbe fare è mirare a costruire, nel tempo, team che includano individui di ciascuna tipologia e rappresentino vari livelli all’interno della gerarchia organizzativa e, di conseguenza, diversi tipi di potere.

I leader dovrebbero assicurarsi che la loro azienda disponga di un sistema per il progresso di carriera e di una politica di diversità e inclusione che tutti, compresi mentori e sponsor, comprendano. Per i dipendenti è importante sapere come distinguere tra fan occasionali, super fan, mentori e sponsor.

Riconoscendo i diversi tipi di sostenitori nel proprio ecosistema organizzativo, adottando misure per sviluppare un’ampia coalizione di supporto e rivisitando regolarmente la propria matrice di supporto, i professionisti possono posizionarsi per il successo ora e in futuro.

E, credetemi, non è poco.

I MIGLIORI (AD) NON smettono MAI di IMPARARE

Laura, credo di essere quella lepre che, nel racconto di Esopo, ha fatto l’errore di sottovalutare una tartaruga. Dalla lentezza con la quale arrancava, mai avrei pensato mi potesse superare. Mi sa che sono caduto nella trappola dell’autocompiacimento”.

E’ facile che questo accada quando, in una posizione di comando e in breve tempo, si sono ottenuti grandi risultati; mentre colleghi in posizione analoga, in altre organizzazioni, non essendo riusciti ad avere risultati simili, nel peggiore dei casi sono stati estromessi dal ruolo o nella migliore delle ipotesi si sono trovati alle prese con la temuta sindrome dell’hockey stick: quella in cui un AD che prevede miglioramenti oltre misura ottiene, nel tempo, solo piccoli progressi.

Diventare AD di successo è impresa difficile, ma mantenere il ruolo lo è ancora di più. I dati lo confermano: più della metà delle società Fortune 500 nel 2000 sono fallite, sono state acquisite o hanno cessato di esistere nei successivi 15 anni.

Questo a causa dell’autocompiacimento: nessuno vuole essere il pugile che vince il massimo titolo, si ammorbidisce e lo perde senza tante cerimonie a favore di un altro pugile promettente ma più affamato.

Raro è incontrare un AD che dica: “Sto diventando autocompiacente“. Ne ho incontrati molti che riconoscono di esserne vittime solo quando vedono una tartaruga davanti a loro.

ANCHE SE HAI TUTTE LE RISPOSTE…

Uno degli AD più rispettati, influenti e di successo del 21° secolo, Jamie Dimon di JPMorgan Chase, nel suo primo mandato, ha navigato abilmente all’interno del colosso dei servizi finanziari durante la crisi finanziaria del 2008. Un anno dopo, è stato nominato AD della società di revisione Brendan Wood International. E così, avanti veloce fino al 2012, quando si è trovato ad affrontare una crisi dopo che la sua azienda ha subito una perdita commerciale di 6 miliardi di dollari. Quando gli è stato chiesto cosa fosse andato storto ha confessato: “La grande lezione che ho imparato è quella di non accontentarsi, nonostante un track record di successo“.

Negli anni centrali del percorso di un AD, è l’AD l’autore dello status quo dell’organizzazione. Ciò rende molto più difficile per lui giudicare l’attività in modo spassionato e interrompere o cambiare ciò che (non) funziona. Inoltre, con più successo arriva anche una maggiore #fiducia nel proprio giudizio e nelle proprie capacità. “Il problema di essere un AD da molto tempo”, afferma James Gorman, CEO di Morgan Stanley “è che tutti ti dicono che hai tutte le risposte. È confortante per l’ego ma anche molto pericoloso”.

Quando si riesce a sopraffare la concorrenza e pochi sono i competitor che possono intimorire, diventa via via più difficile definire cosa significhi #vincere. Nel frattempo, a meno che non si sia ancora il primo motore del cambiamento, anche l’organizzazione diventerà compiacente.

COME SOSTENERE PRESTAZIONI ELEVATE NEL TEMPO (a scapito dell’ego)

DEDICA TEMPO ALL’APPRENDIMENTO.

Nei primi anni da AD, hai imparato una quantità straordinaria di cose. Le conversazioni, i confronti con clienti, dipendenti, investitori, analisti, consiglieri e altre parti interessate ti hanno aiutato a plasmare la strategia che ha portato al successo che ti stai godendo oggi. Ora sei inondato di richieste per raccontare la tua storia e condividere le tue vittorie con gli altri. Sebbene queste richieste siano ben meritate, parimenti aumentano le distrazioni.

Puoi vincere premi; ottenere riconoscimenti. Tutte cose buone. Ma il tuo compito è fare ogni anno meglio di quello precedente”. Sono i pericoli su cui Flemming Ørnskov, CEO della società farmaceutica Galderma, punta il dito.

Il punto non è ritirarsi dall’impegno esterno. Ma assicurarsi di passare il tempo ad ascoltare, imparare e collegare i punti invece di parlare (solo e semplicemente) dei #successi ottenuti.

Nel caso di Ørnskov, il suo successo all’inizio gli ha permesso di delegare maggiori responsabilità al team, il che significava che poteva trascorrere più tempo al di fuori dell’ufficio, ma solo su cose che avrebbero aiutato l’azienda a rimanere competitiva. “Conoscevo tutti i principali opinion leader. Ho passato tantissimo tempo a capire cosa stava succedendo, vedere pazienti, incontrare medici, andare a conferenze scientifiche per conoscere le ultime novità dalla ricerca e studiare i concorrenti sul campo[1].

Per l’ex CEO di LEGO Jørgen Vig Knudstorp, un improbabile gruppo di clienti è stato determinante: la community di adulti, fan del gioco. L’AD si unì a una delle loro conferenze, guadagnandone la fiducia, e loro lo aiutarono in alcune #scelte strategiche. I clienti adulti di LEGO ora ammontano a più di un milione in tutto il mondo, il 30% del business globale di LEGO.

Il CEO di Dupont, Ed Breen: “Mi incontro spesso con gli attivisti. Se sai ascoltare, spesso hanno buone idee. E quando non mi sono trovato d’accordo con loro, ho cercato soluzioni che potessero soddisfare entrambi. Il loro punto di vista è: se Ed ha un modo migliore per risolvere un problema, bene. Lo faccia. Con questo approccio, ho scoperto che spesso diventano tuoi alleati”.

Breen consiglia inoltre di unirsi fra pari e parlare liberamente di argomenti chiave. “Si impara molto ascoltando ciò che le persone vedono nei loro mercati, ed è a un livello che va più in profondità di quello che si legge sul Wall Street Journal. Ogni volta, trovo sempre nuove idee”.

L’ex CEO di Nestlé Peter Brabeck-Letmathe ha invece ricalcato la #strategia Disney: mentre progettava i film d’animazione, già pensava a come ottenere il massimo da quei film nei successivi dieci anni. “Invece di creare un solo ingrediente per un prodotto, che ha un valore limitato, mi sono messo a pensare a come trasformare un ingrediente nutrizionale in un marchio e come sfruttarlo nel successivo decennio” Le persone fanno cose in modi diversi, e puoi sempre imparare qualcosa e applicarlo nella tua organizzazione.

Si può apprendere molto anche dall’interno, come ha fatto Brad Smith, ex CEO del gigante del software finanziario Intuit: “solitamente dedicavo due incontri a settimana con persone di diversi livelli inferiori nell’organizzazione e a tutti ponevo tre domande:

–      Cosa sta migliorando rispetto a sei mesi fa?

–      Cosa non sta facendo abbastanza progressi o sta andando nella direzione sbagliata?

–      C’è qualcosa che temi e che nessuno mi sta dicendo ma credi che io abbia bisogno di sapere?’

Questo permette di accedere a ogni livello dell’organizzazione, eliminando ogni filtro.

PRENDI LA PROSPETTIVA DI UN ESTRANEO.

In uno degli esperimenti di Kahneman, un negozio di alimentari ha messo in vendita i prodotti Campbell Soup per 79 centesimi con un cartello che diceva “limite 12 barattoli per cliente“. Un altro negozio gestiva la stessa vendita ma senza limiti di acquisto. In media, nel primo punto vendita sono stati acquistati 7 barattoli, nel secondo 3.

L’esperimento mostra il potere dell’ancoraggio. Un’ancora è un’informazione su cui si fa affidamento per prendere una #decisione. Il cervello degli acquirenti si è ancorato al limite di acquisto di 12. Coloro che hanno acquistato solo tre barattoli non avevano in mente il numero 12, quindi hanno fatto un acquisto ancorato verso il basso (allo zero).

Questo concetto è simile al modo in cui molti AD organizzano la loro strategia: aggiornandola annualmente sulla base dei presupposti dell’anno precedente, su cosa vale ancora e cosa no.

Al contrario, i migliori AD effettuano periodicamente analisi approfondite di tutti gli aspetti delle attività nello stesso modo in cui lo facevano quando si sono insediati, come se arrivassero dall’esterno con occhi nuovi. Non sono ancorati al passato, gravati da lealtà interne o disposti a piegarsi a pressioni a breve termine.

All’inizio degli anni ’80, quando i profitti di Intel crollarono da 198 milioni di dollari a 2 milioni l’anno successivo, l’allora presidente Andy Grove chiese a Gordon Moore, all’epoca CEO di Intel, che decisioni avrebbe preso un nuovo AD. Moore rispose che non si sarebbe più dedicato ai chip di memoria, ma avrebbe scommesso il proprio futuro su un nuovo prodotto: il microprocessore. E così fecero, contribuendo a inaugurare una serie di successi.

DEFINISCI la PROSSIMA CURVA a S in MODO COLLABORATIVO.

Visto che a nessuno piace il #cambiamento, si rende necessario creare un ritmo di cambiamento. E lo si può fare coinvolgendo le parti interessate.

Lo spiega bene l’ex CEO di Medtronic Bill George: “Le persone supportano ciò che aiutano a creare“. Ossia, non distruggono ciò che hanno costruito.

Per avere successo occorre adottare un approccio collaborativo nel definire la prossima curva a S. Nel 2015, Maurice Lévy, CEO di Publicis, si è reso conto che la sua strategia di crescita basata sulle acquisizioni si era conclusa. Era giunto il momento per un’altra curva a S. Anche se aveva una visione chiara di ciò che doveva essere fatto, ha coinvolto per diversi mesi, il suo team esecutivo e il livello dirigenziale, 300 leader veterani più 50 manager under 30 neo promossi, perchè comprendessero il punto di vista di Lévy e lo perfezionassero.

ORGANIZZAZIONI A PROVA DI FUTURO.

Quando le cose vanno bene, è difficile immaginare che possa incombere una #crisi. Sfortunatamente, non importa quanto bene sia gestita un’azienda, la domanda anche per i migliori AD non è se dovranno superare una crisi, ma quando.

Una crisi può nascere ovunque e in qualsiasi momento. E può porre fine al mandato altrimenti eccezionale di un CEO, o può essere abilmente sfruttata per spingere un’azienda a nuovi livelli di #prestazioni post-crisi.

Coloro che ottengono risultati positivi riconoscono che il momento migliore per prepararsi a una crisi non è il giorno della crisi e quindi sottopongono regolarmente a stress test la propria attività.

Un buon esercizio di stress test è quello a cui si sottopone Reed Hastings: “Sono trascorsi dieci anni e Netflix è un’azienda fallita. Stimiamo le probabilità delle diverse cause”. Hastings e il suo team esaminano l’elenco, valutando le rispettive probabilità. “A volte la discussione si sposta su cosa possiamo fare per alcuni di questi rischi, ma molte volte, solo definire quali rischi dobbiamo affrontare spingerà le persone ad adattare il comportamento in modi intelligenti che ci rendono più resilienti“.

Il segreto per gestire al meglio una crisi è riconoscere di essere in crisi.

Fonti

[1]  CEO Excellence: The Six Mindsets That Distinguish the Best Leaders from the Rest: Dewar, Carolyn, Keller, Scott, Malhotra, Vikram: 9781982179670: Amazon.com: Books


Dewar C., Keller S., Malhotra V., Strovink K., (2023) “Staying ahead: how the best CEOs continually improve performance”, McKinsey Quarterly.