TUTTO ciò che ABBIAMO REALIZZATO ARRIVA dalla LETTURA


Tutto ciò che apprezziamo nel mondo moderno ha le sue radici nella scrittura. Tutto ciò che abbiamo realizzato è venuto dalla lettura.

Dalla logica di Aristotele, all’astronomia di Keplero, passando attraverso la fisica di Newton, la biologia di Darwin e la filosofia di Kant: nessuno di loro è più in vita eppure, delle loro idee parliamo ancora. Allo stesso modo dei grandi della letteratura: non abbiamo più modo di dibattere con loro, ma i loro pensieri si sono fatti immortali e andiamo a ricercarli di tanto in tanto. Quando abbiamo bisogno di confrontarci con un maestro, un mentore. Un amico.

Senza libri, non saremmo mai sfuggiti ai confini dello spazio e del tempo. Uno dei modi più efficaci per conoscere il mondo è quello di immergersi nella saggezza del passato. Siamo – si dice – come spendiamo il tempo e diventiamo ciò che consumiamo.

NON SEMPRE SAPPIAMO LEGGERE NEL MODO GIUSTO

Spesso ci hanno insegnato a leggere solo per imparare a memoria una certa nozione. Ricordo ancora le tante frasi dei Promessi Sposi che la professoressa di italiano alle Medie ci costringeva a memorizzare. Una tortura sterile e poco utile a sviluppare il senso critico e la capacità di analisi di noi studenti. E così le ore passavano pesanti mentre ripetevo parti di un romanzo che difficilmente potrò mai apprezzare. Insomma quell’insegnante ci insegnava a memorizzare non per farci comprendere, ma per farci recitare e l’unico nostro obiettivo era quello di superare indenni “la recita” di turno. Qualunque cosa al di fuori di quell’obiettivo contava pochissimo per il risultato finale.

Per fortuna l’amore per la lettura (e la scrittura) ha superato questi maltrattamenti e sono andata oltre ma molti da quel metodo cieco, ne sono stati sedotti, e ogni qual volta che avvertono di non riuscire a ricordare o memorizzare tutto ciò che leggono, convinti di star perdendo tempo, si scoraggiano da ulteriori letture. E i libri che hanno comprato rimangono a prendere polvere su qualche tavolino.

LEGGERE SIGNIFICA SCOPRIRE NUOVE PROSPETTIVE

Leggere non significa passare al setaccio ogni parola, ma scoprire nuove prospettive, nuovi punti di vista. E per farlo al meglio occorre chiedersi il motivo per cui si legge… Che tu stia litigando con un classico russo, o una commedia, un volume di psicologia o il diario di un imperatore romano, in ogni caso stai cercando di guardare la realtà da una angolatura diversa. Per scoprire l’ignoto, anche in ciò che già credi di sapere.

Leggere non è solo un hobby, è soprattutto una virtù. Ogni parola, ogni frase e ogni paragrafo scritto bene hanno il potere di insegnare qualcosa. Anche chi sei, se sei pronto ad accettarlo.

RACCONTARE STORIE è una STRATEGIA di SOPRAVVIVENZA

Non sappiamo vivere senza storie.  Di continuo abbiamo bisogno di elaborare racconti, invenzioni e fantasie. E non solo quando siamo svegli. Una sorta di dipendenza che però ha qualcosa di necessario, di biologico, di vitale, di genetico.

Come dimostra Jonathan Gottschall, docente al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura. L’arte di creare storie è un istinto iscritto nei nostri geni. Da Sharazade, che riusciva a sospendere la condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni, alla politica. dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali), la psicoterapia dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita e talvolta anche la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica.

NON AMIAMO LE STORIE A LIETO FINE

Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate: Edipo si acceca per l’orrore, Medea uccide i propri figli, i cadaveri che popolano i drammi di Shakespeare, le truculente fiabe dei Grimm… La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, ricalcando l’interminabile viaggio dell’eroe che detta la trama di ogni racconto.

Ma perché la paura e l’orrore occupano una parte prevalente? “Perché – sostiene Gottschall – le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale”. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.

VIVIAMO LE STORIE CHE ASCOLTIAMO

“La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie”, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.

Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo. Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano.

Insomma… è una strategia di sopravvivenza anche questa. Quella di raccontare storie per sopravvivere…

Il LIBRO di TALBOTT che GIOCA con le OSSESSIONI dell’OCCIDENTE

Un misterioso libro nero-blu dalle direttive rivoluzionarie circola fra i prescelti, uomini comuni che presto passeranno all’azione mentre una fantomatica lista su internet “I meno amati d’America” identifica i bersagli da uccidere: classe dirigente, docenti universitari, politici e giornalisti.

E’ la trama dissacrante, ingegnosa, politicamente scorretta, ma quanto mai attuale (in un’epoca dove chi ha cultura e successo è sottoposto ad ostracismo) del romanzo fresco di stampa di Chuck Palahniuk, “il libro di Talbott”. Una tragedia annunciata, ma noi esseri umani, fatichiamo a imparare dalla storia. O con le affilate parole di Chuck “Dio non voglia che qualcuno impari qualcosa dai miei libri. Il mio mestiere non è insegnare. Quello era il lavoro di Stalin”.

A quattro anni dal suo ultimo romanzo, l’autore dell’acclamato Fight Club torna con un’opera in cui fa esattamente quello che gli riesce meglio: mettere alla berlina le assurdità della società contemporanea, le ossessioni, il razzismo, l’omofobia, il mito della sicurezza, il sovranismo per smascherare le teorie complottiste che giacciono latenti nella psiche degli americani. E aggiungo, non solo quelle americane. Insomma… ogni mio riferimento ai nostrani fatti politici e di cronaca non è per nulla casuale.

Il passaparola scatta solo tra persone fidate: “Il Giorno dell’Aggiustamento sta arrivando.” La gente fa circolare un misterioso libro nero-blu, una sorta di pamphlet profetico, memorizzandone le direttive rivoluzionarie. Messaggi radiofonici e televisivi, cartelloni pubblicitari e il web ripetono ossessivamente gli slogan di Talbott Reynolds: si avvicina il giorno della resa dei conti per la classe dirigente e le élite culturali. Il popolo non sarà più sacrificato alla nazione, il surplus di giovani maschi non verrà mandato al macello nell’ennesima guerra in Medio Oriente, ma a cadere saranno le teste di politici e giornalisti, professori e notabili – anzi, per la precisione, le loro orecchie. Sinistre.

Con la Dichiarazione di Interdipendenza, gli ex Stati Uniti vengono ridefiniti secondo criteri razziali, e la popolazione ridistribuita in base al colore della pelle e alle preferenze sessuali. Il simile con il simile, nei tre nuovi stati-nazione di Caucasia, Blacktopia e Gaysia.

Ma neanche in questo nuovo mondo, come è facile prevedere, tutto fila liscio…

Un libro che costringe a pensare, a ridefinire le identità e i valori. Uno scrigno dentro il quale occorre guardare per trovare se stessi, chiunque siamo. Oltre i paradossi e le paure.

Una STRANA CORSA VERSO la LIBERTA’

Un uomo trova un dado da gioco, e prendendolo in mano sente la necessità di lanciarlo e di comportarsi in base al risultato. “Se esce il 3 faccio quello che farei comunque, mi lavo i denti e vado a dormire; se esce il 2 faccio ciò che vorrei realmente fare: busso alla mia vicina e se apre la porta, ci vado a letto…”

Un’opzione per ogni faccia del dado. Esce il 2 e l’uomo rallenta, sa di trovarsi di fronte un limite, se lo oltrepassa la sua vita rischia di cambiare… ma in fondo la decisione non è sua, è del dado e così asseconda questo destino un po’ forzato.

Quando torna a casa, qualche ora più tardi, si sente cambiato, un cambiamento percettibile ma inarrestabile. Ha fatto qualcosa che mai avrebbe fatto, si sente più coraggioso e più libero.

UNA DOMANDA, SEI SOLUZIONI

Passa il tempo e l’uomo si affida sempre di più al dado. Una domanda, sei soluzioni: tutto attraversa la coscienza del dado. La scelta del film da vedere, cosa mangiare, chi maltrattare o riverire… All’inizio le opzioni sono prudenti, poi si fanno più audaci e tutto ciò che mai aveva considerato, diventa opzione del gioco. Andare in un luogo in cui non andrebbe mai, provare a sedurre una donna pescata a caso sull’elenco telefonico, entrare in un locale per scambisti, andare a letto con un uomo… Anche con i suoi pazienti usa il dado: lui è uno psichiatra.

I risultati sono spaventosi, la moglie lo lascia, l’ordine dei medici lo espelle perchè incapaci di sostenere questa terapia rivoluzionaria, gli amici lo abbandonano.
Ma l’uomo prosegue in questa strana corsa verso la libertà, l’obiettivo è chiaro: non essere più prigionieri di se stessi, poter agire secondo l’umore e il capriccio del momento. “All’inizio, era come marijuana, piacevole e divertente, poi è diventato come l’acido una roba esaltante ma distruttiva”.

Via via che il racconto procede, la tentazione di ricorrere al dado, l’ho avuta anch’io. Lasciando all’inanimato seduttore di numeri, quello che in realtà affiora alla coscienza, senza portarne la colpa. Dire ciò che si pensa o fare ciò che le convenzioni non ci consentono di fare e poter sorridere tirando il dado, una volta di più.
Poi mi sono chiesta se questa apparente anarchia fosse solo un desiderio inespresso di deporre l’affannoso e crudele arbitrio che non abbiamo. Arrestare l’indicibile elenco di dettami che la vita che ci siamo costruiti, ci ha imposto. Ma chi è il dado? Chi rappresenta? La mia coscienza vulnerabile o il mio inconscio soggiogato che militarmente disarciona il cavaliere? Perdere la guida per perdere la strada.

LA LIBERTA’ CHE IL DADO REGALA A CARO PREZZO

Qualcuno nel tempo è morto per la scelleratezza del dado, altri sono rinsaviti, altri non hanno rotto la dipendenza pur ricorrendoci solo per scelte poco pericolose.
Il dado è un mezzo che regala a caro prezzo un sorso di libertà. Mi viene in mente la Merini, la poetessa che non aveva bisogno del dado per uscire dalle convenzioni. Era la prima a considerarsi folle.

Luke, l’uomo del dado, giorno dopo giorno continua ad affidarsi al fato che il dado sceglie in vece sua. Giocherà il gioco dello psicopatico, del debole, dell’aggressivo, del fanatico, dello stupido, del simpatico, dell’affabile, del romantico… fino a uccidere uno sconosciuto. Non verrà mai scoperto.

THE DICE MAN

Chissà chi ognuno di noi chiederebbe al dado di uccidere al posto nostro? Mi chiedo mentre l’ultima pagina consegna al libro la sua integrità. The dice man, l’uomo dei dadi… Sì, perchè l’uomo dei dadi è un racconto, e come nei racconti migliori, poco importa se ciò che vi è narrato sia accaduto veramente. È l’immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un’utopia negativa, più aperta alla distruzione, che alla creazione.

L’uomo dei dadi è un racconto antropologicamente affascinante, denso di psicologia e filosofia. Dove ad aver l’ultima parola è il diktat supremo: «Chiunque può essere chiunque». Se in Fu Mattia Pascal, c’è un annichilimento dell’identità e una ricerca di pura autenticità seppur nel fallimento, qui c’è un disperato bisogno di (auto)distruzione, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.

L’ODIO, STUPIDA MALATTIA o l’altra FACCIA dell’AMORE?

“L’odio è una passione diabolica che andrebbe controllata ed eradicata”. Vito Mancuso, teologo e docente italiano dalla conoscenza infinita, in un articolo di qualche giorno fa sul Foglio, porta a riflettere su questo sentimento arrivando a dire che è una malattia.

“Un conto è avversare, un altro è odiare. L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Eppure le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa.

A dimostrarlo i ricercatori dell’University College di Londra: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

LA VISIONE DELLE NEUROSCIENZE

In questo studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti, ad esempio, di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati ad osservare le immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

I ricercatori hanno così notato che la vista della persona odiata attivava particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

“È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.”

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza esistente tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.”

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso conclude “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati.

TRADIAMO anche QUANDO siamo FELICI

Il tradimento esiste anche nelle coppie felici. Anche quando figli splendidi abitano le nostre dimore. Anche quando foto di lui e lei sorridenti e soddisfatti riempiono ogni anfratto della casa.

Siamo stati educati a pensare che quando tutto funziona in un matrimonio, non si è portati a guardare altrove, certi che l’infedeltà non ha modo di esistere e che l’equilibrio fra libertà e sicurezza, una volta raggiunto, si faccia compatto come ghiaccio. Eppure anche il ghiaccio si scioglie. Come i matrimoni felici ed infelici. Come le relazioni aperte dove i confini del sesso extraconiugale sono stati negoziati e consolidati.

Perché allora si tradisce se si è felici, se a casa c’è tutto ciò che serve? Perché neanche il matrimonio perfetto ci immunizza dal desiderio di vagabondare e sperimentare?

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA IDENTITA’

Spesso non ha a che fare con l’altro ma con la scoperta di sé, come ricerca di una nuova identità. “L’infedeltà – sostiene la psicoterapeuta Esther Perel, non è tanto il sintomo di un problema, quanto un’esperienza liberatoria fatta di crescita, scoperta e trasformazione”. Quando cerchiamo lo sguardo di un’altra persona, non è dal coniuge che ci stiamo allontanando ma dalla persona che siamo diventati. Non stiamo cercando un amante ma una versione, diversa, nuova di noi stessi.

Ad attivarsi è, in questi casi, il cervello rettiliano, lo stesso che si attiva nell’alcolista che ha necessità di bere e il tossico della sua dose. “Il dio dell’amore vive in uno stato di bisogno, di urgenza. E’ un disequilibrio, allo stesso modo della fame e della sete. Si dice, in questi casi, tu sei la mia droga: l’amore è una dipendenza. A tutti gli effetti. Anche quando si tratta di se stessi. Abbiamo bisogno di una tossicodipendenza emozionale anche quando si tratta di noi.

Allo stesso modo degli altri, ci si stufa anche di una parte di noi. Difficile però ammetterlo, più comodo è cercare come fa l’ubriaco le chiavi perdute non dove gli sono cadute, ma dove c’è più luce. Noi umani tendiamo a cercare la verità dove è più facile guardare, non dove è più probabile che si trovi (la trappola dell’effetto lampione).

Ed è per questo che spesso è più facile dare la colpa a un matrimonio in crisi che fare i conti con se stessi, le proprie paure, aspirazioni, enigmi e la nostra incapacità di regalarci emozioni. Mossi dal sospetto che c’è una felicità più assoluta, cruciale, che ci stiamo perdendo, che non abbiamo esplorato: è la nostalgia per le vite che non abbiamo vissuto, le strade che non abbiamo preso, «il tradimento è la vendetta delle possibilità negate».

DOPAMINA E RICOMPENSA

Abbiamo bisogno di tornare a volerci bene, di inondandoci di dopamina, la sostanza della ricompensa all’infinito. Che infinito non è mai. Piuttosto un vertiginoso giro di giostra. Altrimenti è come quando veniamo lasciati e ci scottiamo. Non per nulla si attiva la stessa area del cervello che reagisce a un dolore fisico, tipo una scottatura.

La tentazione è pur sempre quella di non provare dolore, entrare in quello stato alterato della mente che corrisponde a far follie: non senti fatica, accetti sfide impossibili, perdi lucidità, e ogni cosa ti sembra la più bella del mondo. Ebbri di ossitocina: l’ormone della felicità. Dimentichi che abbiamo nella nostra mente tutto quello che serve. E se manca, non necessariamente è per colpa di qualcun altro al di fuori di noi.

Il FASCINO della SUPERFICIALITA’ e la NUOVA IGNORANZA

Il Presidente del Consiglio Conte ha esaltato l’8 settembre 1943, confondendolo con il 25 aprile 1945: data fondamentale per la rinascita dell’Italia, quando invece fu una catastrofe storica; Di Maio non solo ha spostato Matera dalla Basilicata alla Puglia ma ha anche audacemente dichiarato che il corpo umano è fatto al 90% di acqua.

E mi fermo qui.

Fino a non troppi anni fa, di fronte a tali affermazioni, ci si scandalizzava, additando l’autore di ignoranza. Oggi invece l’ignoranza è considerata orgoglio da establishment e chiunque provi a rimettere le cose in ordine, attribuendo fatti e numeri a chi davvero ne ha proprietà, viene tacciato di complottismo.

REALTA’ VS CONSENSO

Insomma la verità non consiste più nella corrispondenza, nell’accordo, tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica e concettuale (adaequatio rei et intellectus), ma fra la realtà e il consenso. E questo mi riporta immediatamente al totalitarismo, regime capace di mobilitare le masse nel nome di una ideologia o di una nazione.

TOTALITARISMO

Un modo gentile, totalitarismo, per definire il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, per citarne i più recenti, dove il tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, imponendo l’assimilazione di una ideologia era la norma. Il partito che controlla lo Stato non si limita cioè a imporre direttive, ma vuole mutare radicalmente il modo di pensare e di vivere della società stessa. Ed ecco che il collegamento ad alcuni movimenti politici e guru che si ergono a motivatori diventa automatico.

In fondo la base del totalitarismo recente, non è il prodotto di élite culturali, di conoscenza e sapere ma di grande masse, come ben scriveva Elias Canetti in “massa e potere”, quasi 60 anni fa.

Insomma l’irruzione di internet ha agevolato un fenomeno che ha sostituito la conoscenza e il ragionamento critico con l’informazione di massa, vorace e poco controllabile, capace di manipolare e di rallentare la riflessione. Meglio cercare il consenso piuttosto che la verità.

NUOVA IGNORANZA

Non per nulla si parla di Nuova ignoranza, un fenomeno che premia la performance e dove la trasmissione del sapere diventa occasionale e deformata.  Il presunto pubblico colto si fa padrone della conoscenza, grazie al dilagare di libri di massa dai contenuti incerti e di indubbio valore e alle prediche che si ergono da palchi dove le star di turno accendono gli animi attraverso tecniche manipolatorie. Scambiate per sapere.

Essere conosciuti da chi non si conosce è la nuova definizione di fama.

SO DI NON SAPERE

Il rimedio è semplice: partire dal presupposto di non sapere, e di farsi spiegare le cose che da chi le vive, le conosce per davvero e poi procedere con approfondimenti e interpretazioni. Credere di sapere più degli altri (e quali altri…), la nuova ignoranza appunto è “una forma di prevaricazione culturale, aggressiva quanto il colonialismo”, dice Maurizio Bettini, sapiente filologo, latinista e antropologo italiano che consiglio a tutti di seguire. Attenzione: non è un guru, è “solo” un professore, colto e saggio… non imbonisce, non motiva, ma appassiona. E genera Cultura. Quella vera, di una volta. Priva di effetti collaterali dannosi.

Se SENTI gli ZOCCOLI PENSI al CAVALLO, non alla ZEBRA. A meno che non VIVI in AFRICA

“Se senti gli zoccoli pensi al cavallo non alla zebra”. A meno che non vivi in Africa.

Non sempre, di fronte a un problema, cerchiamo la spiegazione più semplice, eppure nella stragrande maggioranza è quella giusta, un chiaro riferimento al “rasoio di Occam”.

E’ di questo che parlo con alcuni studenti, persi nel cercare soluzioni dimenticandosi della semplicità.

RASOIO DI OCCAM – PRINCIPIO DI ECONOMIA

Il rasoio di Occam, chiamato anche “principio di economia” suggerisce di fare a meno delle ipotesi superflue quando si cerca di spiegare un fenomeno, in altre parole: a parità di elementi la soluzione di un problema è quella più ragionevole.

Insomma, inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non serve ad arrivare alla soluzione o a rendere edificante qualcosa.

Il principio di Occam, per cui il suo postulatore venne accusato di eresia dalla Chiesa, si usa indistintamente in trattati filosofici, per questioni quotidiane ma anche su grandi temi scientifici, ad esempio la natura e la composizione dell’universo.

PSEUDOSCIENZE E REALTA’

Il mancato uso è una caratteristica delle pseudoscienze, in tutti quei casi in cui si cerca di spiegare un fenomeno più o meno misterioso ipotizzandone altri di ancora più improbabili.

Per esempio, non è ancora del tutto chiaro come gli antichi Egizi riuscirono a costruire le piramidi: è possibile ipotizzare che lo abbiano fatto grazie a tecnologie avanzate fornite loro da civiltà aliene, ma seguendo il principio di economia è preferibile supporre che ci siano riusciti da soli sfruttando in modo ingegnoso le conoscenze dell’epoca.

In questo modo non siamo obbligati a ipotizzare una serie di condizioni particolari – che gli alieni esistano, che siano riusciti ad arrivare sulla Terra, a comunicare con gli Egizi e poi a scomparire senza lasciare tracce – e possiamo spiegare lo stesso fenomeno, le piramidi, facendo ricorso a meno ipotesi.

UTILITA’ DEL RASOIO DI OCCAM

L’importanza del rasoio di Occam sta nel costringerci a distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Nel vietarci di andare oltre la più semplice descrizione possibile e ci aiuta a stare alla larga dalle conoscenze presunte e a capire dove le nostre teorie sono incomplete e hanno bisogno di essere migliorate.

Questo però non vuol dire che possiamo usare il rasoio come arma impropria (che qualcuno chiama ironicamente “la motosega di Ockham”) per fare a pezzi le teorie che non apprezziamo, magari perché non rispondono a una definizione arbitraria di semplicità o non condividono i nostri presupposti metafisici.

Qualche volta, specialmente in temi complessi come la politica o l’economia, si assiste a usi spericolati del rasoio di Occam che fanno accapponare la pelle tanto quanto le fallacie delle pseudoscienze, ma in questi casi rientriamo nella propaganda e non nella buona pratica scientifica.

HANDWRITING IS GOOD FOR YOUR CREATIVITY AND MEMORY

Writing down information and appointments by hand (instead of using the keyboard) helps you to remember concepts and notions better.
In adults, because handwriting is slower than typing, it gives you more time  to reflect; whereas in children, it also facilitates the learning process: allowing them to  not only learn to read quicker, once having learned to write by hand, but also to  make them more capable of generating ideas and of conserving data.
In other words, it is not only what we write that counts, but how we do it.
SUPPORTING EVIDENCE
Several studies support this theory, including the one carried out on children by the psychologist of the University of  Washington, Virginia Berninger. The researcher demonstrated that when children write freehand , they not only produce more words more quickly than they do with a keyboard, but also express more ideas, showing greater fluidity of language and information (and neural activation in the areas associated to the work memory and to the networks of reading and writing of the brain), than similar aged children who do their writing with a keyboard.
THE BENEFITS OF HANDWRITING
The benefits of handwriting extend beyond childhood. Two psychologists, Pam Mueller of Princeton and Daniel Oppenheimer of the University of California, Los Angeles, have found that both under laboratory conditions and in the class, students learn better when taking handwritten notes. “Handwriting  – explain the researchers – allows the student to process the content and reformulate it: a process of reflection and handling that may lead to a better understanding and codification in the mind”
Put more simply writing things down on paper “teaches” us to read better, contributes to reinforcing the areas of the  brain where the shape of the letters is recognised or where the sounds are associated to words.
Further confirmation comes from China, where the “pinyin” transcription system of Chinese on QWERTY keyboards is increasingly used: abandoning the handwritten Chinese characters, diagnoses of dyslexia and other reading difficulties are undergoing continual growth. “Typing a letter does not let you really understand the shape and the possible variations that do not change its meaning, like what does actually happen when you learn to write it by hand”, explains Karin James of the University of Bloomington, in Indiana.
Basically: when writing something by hand or with a digital pen, several more parts of the brain “light up” than when we use the keyboard. And using the pen activates deeper areas of the brain and this has positive effects on both memory and on learning in children and in adults.

Annotare informazioni e appuntamenti a mano (anzichè con la tastiera) aiuta a fissare e memorizzare meglio concetti e nozioni.

Negli adulti la scrittura a mano permette, in quanto più lenta rispetto a quella su tastiera, un tempo di riflessione maggiore; mentre nei bambini facilita anche il percorso di apprendimento: permettendo loro non solo di imparare a leggere più velocemente una volta appresa la scrittura a mano, ma anche di renderli più capaci nel generare idee e conservare dati.
In altre parole, non è solo quello che scriviamo che conta, ma come lo facciamo.

EVIDENZE A SOSTEGNO

A sostegno numerosi studi, fra cui quello condotto, sui bambini, dalla psicologa dell’Università di Washington Virginia Berninger. La ricercatrice ha dimostrato che quando i bambini scrivono a mano libera, non solo producono più parole e più rapidamente di quanto facciano su una tastiera, ma esprimono anche più idee, mostrando maggiore fluidità di linguaggio e informazioni (e di attivazione neurale nelle aree associate alla memoria di lavoro e alle reti di lettura e scrittura del cervello), rispetto ai coetanei che affidano il contenuto dei loro scritti alla tastiera.

I BENEFICI DELLA SCRITTURA A MANO

I benefici della scrittura a mano si estendono oltre l’infanzia. Due psicologi, Pam Mueller di Princeton e Daniel Oppenheimer dell’University of California, Los Angeles, hanno riferito che sia nella condizione di laboratorio sia in classe, gli studenti imparano meglio quando prendono appunti a mano. “La scrittura a mano – spiegano i ricercatori – permette allo studente di elaborare i contenuti e riformularli: un processo di riflessione e di manipolazione che può portare a una migliore comprensione e codifica in memoria”
In parole semplici la scrittura su foglio “insegna” a leggere meglio, contribuisce a rinforzare le aree del cervello dove si riconosce la forma delle lettere o in cui si associano i suoni alle parole.
Conferma ulteriore arriva dalla Cina, dove si utilizza sempre di più il sistema “pinyin” di trascrizione del cinese sulle tastiere QWERTY: abbandonando gli ideogrammi scritti a mano, le diagnosi di dislessia e altre difficoltà di lettura sono in continua crescita. «Digitare una lettera non permette di comprenderne davvero la forma e le possibili variazioni che non ne alterano il significato, come invece accade quando si impara a scriverla a mano», spiega Karin James dell’Università di Bloomington, nell’Indiana.
In sintesi: quando scriviamo a mano o con la penna digitale si “accendono” più parti del cervello rispetto a quando utilizziamo la tastiera. E l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde e questo ha effetti positivi sia sulla memoria sia sull’apprendimento nei bambini e negli adulti.

TUTTI ABBIAMO UN GEMELLO SCONOSCIUTO…

Da qualche parte nel mondo c’è una persona che ci assomiglia come una goccia d’acqua. In parole semplici: tutti abbiamo un gemello.

Tutto ha inizio nel 2015 quando Niamh una ragazza irlandese di 28 anni è stata contattata da un programma tv per partecipare a una bizzarra competizione: trovare la sua gemella sconosciuta.

Dopo due settimane di ricerche Niamh trova Karen, di Dublino e in breve Luisa di Genova e Irene di Sligo. Anche se sembrano tutte gemelle, le quattro ragazze non hanno alcun legame di parentela che le unisca.

Al programma tv non partecipa solo Niamh, e presto altri partecipanti scovano i loro rispettivi sosia.

Benchè il mito dell’unicità è affascinante, siamo costretti a capitolare: l’abbondanza di sosia conferma che non siamo i soli almeno esteticamente. Di ognuno di noi c’è qualche copia, più o meno riuscita.

Eppure riconoscere il proprio gemello non è facile come potrebbe sembrare. Ci sono persone affette da una sorta di “cecità dei volti” (prosopagnosia) che permette loro di rispondere a domande sul soggetto di una foto, per esempio il colore degli occhi, le emozioni che esprime, ma non sono in grado di riconoscerlo dal vivo: che si tratti di un divo, un amico o addirittura di se stesso.

E poi ci sono i super fisionomisti, la cui capacità di riconoscere i volti è così fine da creare un problema sociale: sono in grado di riconoscere chiunque, persino persone che hanno incrociato in metro molti anni prima.

La maggior parte di noi sta in mezzo a questi due estremi: riconosciamo molte persone, ma non tutte.

A questo punto possiamo fare di un assioma legge? Possiamo dire che tutti abbiamo un gemello identico, si chiede la scienza?

Dipende… E qui si apre un dilemma o forse dovrei dire un paradosso. Se due persone sono identiche nessuno sarà mai in grado di distinguerle, neanche i super fisionomisti. Ma visto che questa definizione è così rigida da escludere persino i gemelli identici (solitamente riconoscibili dai famigliari e dagli amici) è improbabile.

Potremmo quindi dire che due persone sono identiche se nessun osservatore inesperto è in grado di distinguerle. Così facendo l’idea di un sosia si fa plausibile e statisticamente rilevante.

Se facciamo due calcoli finora sulla terra hanno vissuto circa 100 miliardi di esseri umani. Questo vuol dire che ci sono decine, centinaia, forse migliaia di persone che ci sembrerebbero ancora più somiglianti, se solo  le incontrassimo. E’ possibile quindi che ci sia o ci sia stato o ci sarà in qualsiasi tempo e luogo, una persona così simile a noi che nessuno riuscirebbe a distinguerci: il nostro gemello identico sconosciuto.

Sentirsi unici, diversi da chiunque altro, è vitale. Distinguerci da tutti gli altri soddisfa l’ancestrale bisogno di sentirci necessari. Se fossimo uguali agli altri, che bisogno avremmo di vivere? Che senso avrebbe la nostra esistenza?

Per fortuna ritrovarsi esteticamente uguali a tanti altri, non preclude l’unicità del pensiero e delle idee. La libertà di essere, non risponde alla legge della genetica. Per ora, almeno…