Il POTERE LOGORA CHI non ce l’HA

A contendersi la frase due scaltri politici: il francese Talleyrand-Périgord, il “diavolo zoppo”, il “camaleonte”, lo “stregone della democrazia”, l’uomo a fianco di Metternich nel Congresso di Vienna, noto per le abili mosse politiche che, al di là dei giudizi morali, lo resero grande protagonista del suo tempo; e l’italiano Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 27 volte ministro e parlamentare in tutte le legislature della Repubblica dal 1948 fino alla sua morte, avvenuta il 6 maggio 2013.

Descritto dalla Fallaci con la sua indomita ruvidezza: «Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza. L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla».

Sull’intelligenza di questa frase, dicevamo, qualche dubbio c’è sempre stato. A far chiarezza, ci ha pensato la scienza, scomodando due delle università più prestigiose del mondo, Stanford e Harvard, incaricate di risolvere un antico dilemma: è più stressato chi comanda o chi è comandato?

E’ PIU’ STRESSATO CHI COMANDA O CHI E’ COMANDATO?

E’ il leader a passarsela meglio, secondo lo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. Quello del ‘capo’ non è un mestiere facile ma, contrariamente al luogo comune che lo vuole stressato fino al midollo, chi ha il potere è in realtà più rilassato di chi non ce l’ha.
Per lo studio i ricercatori americani hanno intervistato 231 ufficiali militari dell’Harvard executive leadership program, misurandone il livello di cortisolo, il principale ormone dello stress.

Lo psicologo di Stanford James Gross, che ha condotto lo studio con la collega Jennifer Lerner e Gary Sherman di Harvard, spiega che la percezione comune secondo la quale chi comanda è più stressato (cosa che giustificherebbe, tra l’altro, il compenso più alto) è in realtà stata più volte smentita dalla letteratura scientifica, che ha dimostrato che avere il controllo delle vite altrui riduce il livello di ansia.
Il livello di cortisolo nei militari con posizioni di comando, registrò un livello del 27 per  cento più basso rispetto a quello dei non-leader.

CHI HA POTERE E’ ANCHE PIU’ FELICE?

Chi ha potere non solo è meno stressato ma è anche più felice. A questa conclusione sono invece arrivati gli scienziati  israeliani della Tel Aviv University, con uno studio pubblicato sulla rivista ‘Psychological Science’.

La ricerca dà un colpo di spugna al mito del potente solo e logorato sul tetto del mondo che per secoli ha alimentato l’immaginario collettivo.

A sostegno ci sono diversi esperimenti. In uno di questi hanno sondato più di 350 persone per stabilire se la sensazione di potere fosse da loro associata al benessere personale in diversi contesti, come il lavoro o il rapporto di coppia. Risultato? Chi si sente più potente tende a essere più contento. E più in alto si trovano gli intervistati maggiormente si sentono soddisfatti, in percentuale il 16% in più rispetto a chi si trova in basso. Questo ‘effetto scettro’ è molto più evidente per i potenti nel mondo del lavoro. Gli impiegati ai vertici sono il 26% più soddisfatti dei colleghi meno autoritari.

Dunque il potere non logora, rende felici ma può comunque dare alla testa. Insomma… chi ha potere deve comunque fare i conti con umani effetti collaterali…

WHISTLEBLOWER – Il DISOBBEDIENTE ETICO che (non) c’è in NOI

Disobbediente è il titolo di un libro.

Un libro che parla di un uomo che paga migliaia di multe al figlio con la carta aziendale. Ed è anche la storia di tanti altri uomini preoccupati che quel senso di etica che con tanta solerzia hanno trasmesso ai figli, possa tradursi in un biglietto di sola andata verso marginalità e ostracismo.

Il disobbediente, colui che rivela e denuncia comportamenti scorretti messi in atto dall’azienda in cui lavora e che rappresentano un pericolo o un danno per la comunità, è detto in gergo whistleblower (letteralmente soffiatore di fischietto): una persona in carne ed ossa che si trova a fronteggiare un’autorità superiore, che decide consapevolmente di sfidare, rischiando probabili ritorsioni e la perdita del lavoro stesso. Una mosca bianca.

Quanti sono i disubbidienti in ogni realtà lavorativa e istituzionale che preferiscono tacere, conformarsi piuttosto che esporsi in un’ottica etica e non morale? Direi pochi. Talvolta è più facile non vedere e assecondare i comportamenti del “capo”, del “guru” di turno, per non rischiare di venir banditi, rifiutati e persino esclusi… dal gruppo. Sì, perchè il nostro bisogno di appartenenza (per un atavico senso di sopravvivenza) è quanto mai vivo e reclama attenzione in ogni momento. Per diventare realmente dei disubbidienti occorre l’indipendenza morale, un valore che va oltre le convenzioni e una forza in se stessi non così comune.

I DATI ITALIANI

In tema di Business Ethics l’Italia risulta allineata ai Paesi dell’Europa continentale, anche se il divario con il Regno Unito resta accentuato: sono il 47% dei lavoratori italiani ad avere la percezione che la propria organizzazione adotti un Codice Etico contro l’86% nel Regno unito.

Negli ultimi anni è notevolmente diminuita (-21%) la consapevolezza dell’esistenza di programmi formali di etica aziendale. In calo inoltre la percentuale dei dipendenti convinti dell’onestà praticata nella loro organizzazione (73% nel 2015 contro l’86% del 2012). In aumento i dipendenti consapevoli dell’esistenza di condotte improprie (attualmente il 32% contro il 27% del 2012). Sono 4 su 10 i lavoratori italiani che si preoccupano delle conseguenze prodotte dalle condotte improprie praticate.

Due sembrano essere gli elementi che maggiormente costituiscono le maggiori variabili in gioco: la crisi, perché l’insistenza sulle politiche di austerity ha ridotto l’attenzione delle aziende verso l’etica e il problema del sistema giuridico di riferimento.

COSA SPINGE IL DISOBBEDIENTE A PARLARE?

Cosa spinge il disubbidiente a non prediligere il silenzio?

Lo psicologo Stanley Milgram ha dimostrato che vi sono fattori di natura situazionale che favoriscono massicciamente comportamenti acquiescenti verso un’autorità riconosciuta, anche di fronte a richieste lesive dell’integrità altrui. Bocchiaro e Zimbardo, in due recenti lavori, allargando il focus degli studi sull’obbedienza all’autorità, si sono concentrati sulla figura del disobbediente (ossia colui che rifiuta di eseguire le consegne dello sperimentatore) e del vero e proprio whistleblower.

Nel primo studio ai soggetti veniva richiesto di criticare il proprio compagno di prove (in realtà complice dello sperimentatore) in modo progressivo e sempre più oltraggioso, per ogni errore commesso, con una penalità fittizia nel caso di abbandono, in modo da rendere più difficile e sconveniente la disobbedienza; il compagno avrebbe reagito agli insulti con una serie programmata di lamenti e segnali di disagio.

Le misure di personalità, in questo caso, non giustificherebbero gli alti livelli di disobbedienza riscontrati (70% dei partecipanti), che sarebbero invece riconducibili tanto a fattori situazionali, quali la vicinanza tra i partecipanti e la distanza fisica tra questi e l’autorità, quanto ad elementi di carattere valoriale: in altre parole, considerando prioritaria la tutela dell’integrità del compagno, i disobbedienti tendevano a percepire come necessaria una propria azione diretta ed immediata, attribuendo priorità a segnali di minaccia, pericolo o immoralità.

Risultati analoghi sono emersi nel secondo studio, nel quale la consegna era scrivere, dietro ricompensa, commenti favorevoli circa la necessità di un esperimento sulla deprivazione sensoriale, potenzialmente pericoloso per l’incolumità psicofisica dei partecipanti, in modo che il Comitato Etico dell’Università approvasse il progetto. In una stanza separata era posizionato un computer da cui scrivere e una cassetta della posta dove eventualmente segnalare al Comitato la potenziale pericolosità dell’esperimento in forma anonima. Tale accorgimento era finalizzato a fornire la possibilità di disobbedire attivamente all’autorità, oltre che il mero evitamento del compito. Anche in questo caso chi sceglieva di denunciare mostrava un orientamento preferenziale verso valori morali internalizzati (E’ anti-etico, va contro i miei principi) piuttosto che verso istruzioni esterne. Sarebbe dunque tale orientamento ad influire sul senso di responsabilità individuale di fronte a situazioni non ordinarie e conflittuali, e sulla conseguente probabilità di comportamenti di disobbedienza attiva, a prescindere dalla presenza di premi o punizioni materiali.

Anche studi di natura cross-culturale (Morselli, 2009) evidenziano il ruolo dell’atteggiamento valoriale del singolo nei confronti dell’autorità. In questi veniva distinta un’obbedienza acritica – caratterizzata cioè da un’aderenza incondizionata alle regole imposte dall’alto – e un’obbedienza responsabile, basata invece su un senso interno di responsabilità personale (Bierhoff e Auhagen, 2001): mentre nella prima condizione le misurazioni correlavano positivamente con dimensioni di autoritarismo, nel secondo caso gli individui sembravano mostrare un orientamento più favorevole verso l’autonomia personale, la prosocialità, l’inclusività sociale e un maggiore coinvolgimento personale in azioni di protesta e disobbedienza attive, quali petizioni, boicottaggi, occupazioni di edifici…

Obbedienza e disobbedienza non sembrerebbero dunque costrutti completamente antitetici ma andrebbero inquadrati come elementi complementari, mediati, tra gli altri fattori, dall’orientamento valoriale del singolo: per dirla con Bocchiaro e Zimbardo, il punto non è disobbedire o meno all’autorità, ma a quale tipo di autorità scegliere di obbedire.

Let us DISPEL a MITH: It is NOT TRUE that the BRAIN does NOT UNDERSTAND NEGATIVE STATEMENTS

I would like to dispel a myth that we often hearduring the course of our personal growth process (or read in “certain” books) from those who know very little about how the brain works. At least compared to someone who has studied the brain for years in university classrooms and maybe has even handled it in the operating rooms or research centres.

Negation is a typical function of human language, and is considered a pragmatic universal need for the communicative necessities to which it responds. However, it is often said that we first need to represent the meaning of a word in order to then negate it.

Several studies have supported the fact that it is not true that the brain does not understand negations, including the most recent one carried out by the researchers of the Center for Neuroscience and Cognitive System (CNCS) in Rovereto and of the Institut des Sciences Cognitives “Marc Jeannerod” of the CNRS in Lyon.

NEGATION AND THE BRAIN
Imagine reading the sentence “There are no eagles in the sky”. You are then shown two pictures: an eagle in its nest and an eagle in the sky. If you were asked which picture you associated to the sentence you just read, you would immediately indicate that of the eagle in the sky and only after would you correct yourself.

Starting from this evidence, neuroscientists, language experts and psychologists have postulated that in order to process the meaning of a negation, it is first necessary to understand the affirmation.

However, in the example of the eagle, there is a practical conditioning: the brain chooses the cognitively more economic way. The sentence “There are no eagles in the sky” leaves many possibilities open. Indeed the eagles could be in their nest, on a tree or flying low over water.

Our brain thus prefers to memorise the only impossible case, an eagle in the sky, rather than the numerous possible ones. What happens though if there is no practical conditioning? Is it still true that understanding negations occurs in two stages?

In order to answer this question, the three researchers showed the subjects involved in the study sentences related to actions which imply movement of the hand, in a positive and negative version, for example “now I’m writing” and “I’m not writing”.

THE ROVERETO EXPERIMENT
The study involved 30 people, all Italian and right-handed. Each subject was shown a series of state verbs and action verbs on a computer screen preceded by a context adverb “now” or “not”. To monitor brain activity during the experiment, the part of the motor cortex associated to the movement of the forearm and the right hand was stimulated with Transcranial Magnetic Stimulation.

RESULTS
The researchers observed that the electric pulses reaching the hand when the subjects read positive actions are more intense than the ones evoked by negative actions, which are even weaker than those measured with verbs of state.

This difference of intensity already exists during the initial stages when the sentence appears on the screen.
The processing of the negations, therefore, occurs differently than that of the affirmations from the early stages, without needing to pass through the processing of the positive meaning.

CONCLUSIONS
The experiment has clarified the operation of a fundamental logic mechanism, negation, showing how the brain is more efficient than we think.

Processing negations probably contributes to defining the difference between human cognition and non-human cognition.

If our cognitive system did not recognise negation, this very statement, like an infinite number of others, would be incomprehensible to humans. And as a consequence not even positive statements.

TUTTO ciò che ABBIAMO REALIZZATO ARRIVA dalla LETTURA


Tutto ciò che apprezziamo nel mondo moderno ha le sue radici nella scrittura. Tutto ciò che abbiamo realizzato è venuto dalla lettura.

Dalla logica di Aristotele, all’astronomia di Keplero, passando attraverso la fisica di Newton, la biologia di Darwin e la filosofia di Kant: nessuno di loro è più in vita eppure, delle loro idee parliamo ancora. Allo stesso modo dei grandi della letteratura: non abbiamo più modo di dibattere con loro, ma i loro pensieri si sono fatti immortali e andiamo a ricercarli di tanto in tanto. Quando abbiamo bisogno di confrontarci con un maestro, un mentore. Un amico.

Senza libri, non saremmo mai sfuggiti ai confini dello spazio e del tempo. Uno dei modi più efficaci per conoscere il mondo è quello di immergersi nella saggezza del passato. Siamo – si dice – come spendiamo il tempo e diventiamo ciò che consumiamo.

NON SEMPRE SAPPIAMO LEGGERE NEL MODO GIUSTO

Spesso ci hanno insegnato a leggere solo per imparare a memoria una certa nozione. Ricordo ancora le tante frasi dei Promessi Sposi che la professoressa di italiano alle Medie ci costringeva a memorizzare. Una tortura sterile e poco utile a sviluppare il senso critico e la capacità di analisi di noi studenti. E così le ore passavano pesanti mentre ripetevo parti di un romanzo che difficilmente potrò mai apprezzare. Insomma quell’insegnante ci insegnava a memorizzare non per farci comprendere, ma per farci recitare e l’unico nostro obiettivo era quello di superare indenni “la recita” di turno. Qualunque cosa al di fuori di quell’obiettivo contava pochissimo per il risultato finale.

Per fortuna l’amore per la lettura (e la scrittura) ha superato questi maltrattamenti e sono andata oltre ma molti da quel metodo cieco, ne sono stati sedotti, e ogni qual volta che avvertono di non riuscire a ricordare o memorizzare tutto ciò che leggono, convinti di star perdendo tempo, si scoraggiano da ulteriori letture. E i libri che hanno comprato rimangono a prendere polvere su qualche tavolino.

LEGGERE SIGNIFICA SCOPRIRE NUOVE PROSPETTIVE

Leggere non significa passare al setaccio ogni parola, ma scoprire nuove prospettive, nuovi punti di vista. E per farlo al meglio occorre chiedersi il motivo per cui si legge… Che tu stia litigando con un classico russo, o una commedia, un volume di psicologia o il diario di un imperatore romano, in ogni caso stai cercando di guardare la realtà da una angolatura diversa. Per scoprire l’ignoto, anche in ciò che già credi di sapere.

Leggere non è solo un hobby, è soprattutto una virtù. Ogni parola, ogni frase e ogni paragrafo scritto bene hanno il potere di insegnare qualcosa. Anche chi sei, se sei pronto ad accettarlo.

RACCONTARE STORIE è una STRATEGIA di SOPRAVVIVENZA

Non sappiamo vivere senza storie.  Di continuo abbiamo bisogno di elaborare racconti, invenzioni e fantasie. E non solo quando siamo svegli. Una sorta di dipendenza che però ha qualcosa di necessario, di biologico, di vitale, di genetico.

Come dimostra Jonathan Gottschall, docente al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura. L’arte di creare storie è un istinto iscritto nei nostri geni. Da Sharazade, che riusciva a sospendere la condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni, alla politica. dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali), la psicoterapia dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita e talvolta anche la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica.

NON AMIAMO LE STORIE A LIETO FINE

Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate: Edipo si acceca per l’orrore, Medea uccide i propri figli, i cadaveri che popolano i drammi di Shakespeare, le truculente fiabe dei Grimm… La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, ricalcando l’interminabile viaggio dell’eroe che detta la trama di ogni racconto.

Ma perché la paura e l’orrore occupano una parte prevalente? “Perché – sostiene Gottschall – le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale”. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.

VIVIAMO LE STORIE CHE ASCOLTIAMO

“La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie”, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.

Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo. Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano.

Insomma… è una strategia di sopravvivenza anche questa. Quella di raccontare storie per sopravvivere…

Il LIBRO di TALBOTT che GIOCA con le OSSESSIONI dell’OCCIDENTE

Un misterioso libro nero-blu dalle direttive rivoluzionarie circola fra i prescelti, uomini comuni che presto passeranno all’azione mentre una fantomatica lista su internet “I meno amati d’America” identifica i bersagli da uccidere: classe dirigente, docenti universitari, politici e giornalisti.

E’ la trama dissacrante, ingegnosa, politicamente scorretta, ma quanto mai attuale (in un’epoca dove chi ha cultura e successo è sottoposto ad ostracismo) del romanzo fresco di stampa di Chuck Palahniuk, “il libro di Talbott”. Una tragedia annunciata, ma noi esseri umani, fatichiamo a imparare dalla storia. O con le affilate parole di Chuck “Dio non voglia che qualcuno impari qualcosa dai miei libri. Il mio mestiere non è insegnare. Quello era il lavoro di Stalin”.

A quattro anni dal suo ultimo romanzo, l’autore dell’acclamato Fight Club torna con un’opera in cui fa esattamente quello che gli riesce meglio: mettere alla berlina le assurdità della società contemporanea, le ossessioni, il razzismo, l’omofobia, il mito della sicurezza, il sovranismo per smascherare le teorie complottiste che giacciono latenti nella psiche degli americani. E aggiungo, non solo quelle americane. Insomma… ogni mio riferimento ai nostrani fatti politici e di cronaca non è per nulla casuale.

Il passaparola scatta solo tra persone fidate: “Il Giorno dell’Aggiustamento sta arrivando.” La gente fa circolare un misterioso libro nero-blu, una sorta di pamphlet profetico, memorizzandone le direttive rivoluzionarie. Messaggi radiofonici e televisivi, cartelloni pubblicitari e il web ripetono ossessivamente gli slogan di Talbott Reynolds: si avvicina il giorno della resa dei conti per la classe dirigente e le élite culturali. Il popolo non sarà più sacrificato alla nazione, il surplus di giovani maschi non verrà mandato al macello nell’ennesima guerra in Medio Oriente, ma a cadere saranno le teste di politici e giornalisti, professori e notabili – anzi, per la precisione, le loro orecchie. Sinistre.

Con la Dichiarazione di Interdipendenza, gli ex Stati Uniti vengono ridefiniti secondo criteri razziali, e la popolazione ridistribuita in base al colore della pelle e alle preferenze sessuali. Il simile con il simile, nei tre nuovi stati-nazione di Caucasia, Blacktopia e Gaysia.

Ma neanche in questo nuovo mondo, come è facile prevedere, tutto fila liscio…

Un libro che costringe a pensare, a ridefinire le identità e i valori. Uno scrigno dentro il quale occorre guardare per trovare se stessi, chiunque siamo. Oltre i paradossi e le paure.

Una STRANA CORSA VERSO la LIBERTA’

Un uomo trova un dado da gioco, e prendendolo in mano sente la necessità di lanciarlo e di comportarsi in base al risultato. “Se esce il 3 faccio quello che farei comunque, mi lavo i denti e vado a dormire; se esce il 2 faccio ciò che vorrei realmente fare: busso alla mia vicina e se apre la porta, ci vado a letto…”

Un’opzione per ogni faccia del dado. Esce il 2 e l’uomo rallenta, sa di trovarsi di fronte un limite, se lo oltrepassa la sua vita rischia di cambiare… ma in fondo la decisione non è sua, è del dado e così asseconda questo destino un po’ forzato.

Quando torna a casa, qualche ora più tardi, si sente cambiato, un cambiamento percettibile ma inarrestabile. Ha fatto qualcosa che mai avrebbe fatto, si sente più coraggioso e più libero.

UNA DOMANDA, SEI SOLUZIONI

Passa il tempo e l’uomo si affida sempre di più al dado. Una domanda, sei soluzioni: tutto attraversa la coscienza del dado. La scelta del film da vedere, cosa mangiare, chi maltrattare o riverire… All’inizio le opzioni sono prudenti, poi si fanno più audaci e tutto ciò che mai aveva considerato, diventa opzione del gioco. Andare in un luogo in cui non andrebbe mai, provare a sedurre una donna pescata a caso sull’elenco telefonico, entrare in un locale per scambisti, andare a letto con un uomo… Anche con i suoi pazienti usa il dado: lui è uno psichiatra.

I risultati sono spaventosi, la moglie lo lascia, l’ordine dei medici lo espelle perchè incapaci di sostenere questa terapia rivoluzionaria, gli amici lo abbandonano.
Ma l’uomo prosegue in questa strana corsa verso la libertà, l’obiettivo è chiaro: non essere più prigionieri di se stessi, poter agire secondo l’umore e il capriccio del momento. “All’inizio, era come marijuana, piacevole e divertente, poi è diventato come l’acido una roba esaltante ma distruttiva”.

Via via che il racconto procede, la tentazione di ricorrere al dado, l’ho avuta anch’io. Lasciando all’inanimato seduttore di numeri, quello che in realtà affiora alla coscienza, senza portarne la colpa. Dire ciò che si pensa o fare ciò che le convenzioni non ci consentono di fare e poter sorridere tirando il dado, una volta di più.
Poi mi sono chiesta se questa apparente anarchia fosse solo un desiderio inespresso di deporre l’affannoso e crudele arbitrio che non abbiamo. Arrestare l’indicibile elenco di dettami che la vita che ci siamo costruiti, ci ha imposto. Ma chi è il dado? Chi rappresenta? La mia coscienza vulnerabile o il mio inconscio soggiogato che militarmente disarciona il cavaliere? Perdere la guida per perdere la strada.

LA LIBERTA’ CHE IL DADO REGALA A CARO PREZZO

Qualcuno nel tempo è morto per la scelleratezza del dado, altri sono rinsaviti, altri non hanno rotto la dipendenza pur ricorrendoci solo per scelte poco pericolose.
Il dado è un mezzo che regala a caro prezzo un sorso di libertà. Mi viene in mente la Merini, la poetessa che non aveva bisogno del dado per uscire dalle convenzioni. Era la prima a considerarsi folle.

Luke, l’uomo del dado, giorno dopo giorno continua ad affidarsi al fato che il dado sceglie in vece sua. Giocherà il gioco dello psicopatico, del debole, dell’aggressivo, del fanatico, dello stupido, del simpatico, dell’affabile, del romantico… fino a uccidere uno sconosciuto. Non verrà mai scoperto.

THE DICE MAN

Chissà chi ognuno di noi chiederebbe al dado di uccidere al posto nostro? Mi chiedo mentre l’ultima pagina consegna al libro la sua integrità. The dice man, l’uomo dei dadi… Sì, perchè l’uomo dei dadi è un racconto, e come nei racconti migliori, poco importa se ciò che vi è narrato sia accaduto veramente. È l’immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un’utopia negativa, più aperta alla distruzione, che alla creazione.

L’uomo dei dadi è un racconto antropologicamente affascinante, denso di psicologia e filosofia. Dove ad aver l’ultima parola è il diktat supremo: «Chiunque può essere chiunque». Se in Fu Mattia Pascal, c’è un annichilimento dell’identità e una ricerca di pura autenticità seppur nel fallimento, qui c’è un disperato bisogno di (auto)distruzione, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.

L’ODIO, STUPIDA MALATTIA o l’altra FACCIA dell’AMORE?

“L’odio è una passione diabolica che andrebbe controllata ed eradicata”. Vito Mancuso, teologo e docente italiano dalla conoscenza infinita, in un articolo di qualche giorno fa sul Foglio, porta a riflettere su questo sentimento arrivando a dire che è una malattia.

“Un conto è avversare, un altro è odiare. L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Eppure le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa.

A dimostrarlo i ricercatori dell’University College di Londra: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

LA VISIONE DELLE NEUROSCIENZE

In questo studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti, ad esempio, di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati ad osservare le immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

I ricercatori hanno così notato che la vista della persona odiata attivava particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

“È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.”

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza esistente tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.”

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso conclude “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati.

TRADIAMO anche QUANDO siamo FELICI

Il tradimento esiste anche nelle coppie felici. Anche quando figli splendidi abitano le nostre dimore. Anche quando foto di lui e lei sorridenti e soddisfatti riempiono ogni anfratto della casa.

Siamo stati educati a pensare che quando tutto funziona in un matrimonio, non si è portati a guardare altrove, certi che l’infedeltà non ha modo di esistere e che l’equilibrio fra libertà e sicurezza, una volta raggiunto, si faccia compatto come ghiaccio. Eppure anche il ghiaccio si scioglie. Come i matrimoni felici ed infelici. Come le relazioni aperte dove i confini del sesso extraconiugale sono stati negoziati e consolidati.

Perché allora si tradisce se si è felici, se a casa c’è tutto ciò che serve? Perché neanche il matrimonio perfetto ci immunizza dal desiderio di vagabondare e sperimentare?

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA IDENTITA’

Spesso non ha a che fare con l’altro ma con la scoperta di sé, come ricerca di una nuova identità. “L’infedeltà – sostiene la psicoterapeuta Esther Perel, non è tanto il sintomo di un problema, quanto un’esperienza liberatoria fatta di crescita, scoperta e trasformazione”. Quando cerchiamo lo sguardo di un’altra persona, non è dal coniuge che ci stiamo allontanando ma dalla persona che siamo diventati. Non stiamo cercando un amante ma una versione, diversa, nuova di noi stessi.

Ad attivarsi è, in questi casi, il cervello rettiliano, lo stesso che si attiva nell’alcolista che ha necessità di bere e il tossico della sua dose. “Il dio dell’amore vive in uno stato di bisogno, di urgenza. E’ un disequilibrio, allo stesso modo della fame e della sete. Si dice, in questi casi, tu sei la mia droga: l’amore è una dipendenza. A tutti gli effetti. Anche quando si tratta di se stessi. Abbiamo bisogno di una tossicodipendenza emozionale anche quando si tratta di noi.

Allo stesso modo degli altri, ci si stufa anche di una parte di noi. Difficile però ammetterlo, più comodo è cercare come fa l’ubriaco le chiavi perdute non dove gli sono cadute, ma dove c’è più luce. Noi umani tendiamo a cercare la verità dove è più facile guardare, non dove è più probabile che si trovi (la trappola dell’effetto lampione).

Ed è per questo che spesso è più facile dare la colpa a un matrimonio in crisi che fare i conti con se stessi, le proprie paure, aspirazioni, enigmi e la nostra incapacità di regalarci emozioni. Mossi dal sospetto che c’è una felicità più assoluta, cruciale, che ci stiamo perdendo, che non abbiamo esplorato: è la nostalgia per le vite che non abbiamo vissuto, le strade che non abbiamo preso, «il tradimento è la vendetta delle possibilità negate».

DOPAMINA E RICOMPENSA

Abbiamo bisogno di tornare a volerci bene, di inondandoci di dopamina, la sostanza della ricompensa all’infinito. Che infinito non è mai. Piuttosto un vertiginoso giro di giostra. Altrimenti è come quando veniamo lasciati e ci scottiamo. Non per nulla si attiva la stessa area del cervello che reagisce a un dolore fisico, tipo una scottatura.

La tentazione è pur sempre quella di non provare dolore, entrare in quello stato alterato della mente che corrisponde a far follie: non senti fatica, accetti sfide impossibili, perdi lucidità, e ogni cosa ti sembra la più bella del mondo. Ebbri di ossitocina: l’ormone della felicità. Dimentichi che abbiamo nella nostra mente tutto quello che serve. E se manca, non necessariamente è per colpa di qualcun altro al di fuori di noi.

Il FASCINO della SUPERFICIALITA’ e la NUOVA IGNORANZA

Il Presidente del Consiglio Conte ha esaltato l’8 settembre 1943, confondendolo con il 25 aprile 1945: data fondamentale per la rinascita dell’Italia, quando invece fu una catastrofe storica; Di Maio non solo ha spostato Matera dalla Basilicata alla Puglia ma ha anche audacemente dichiarato che il corpo umano è fatto al 90% di acqua.

E mi fermo qui.

Fino a non troppi anni fa, di fronte a tali affermazioni, ci si scandalizzava, additando l’autore di ignoranza. Oggi invece l’ignoranza è considerata orgoglio da establishment e chiunque provi a rimettere le cose in ordine, attribuendo fatti e numeri a chi davvero ne ha proprietà, viene tacciato di complottismo.

REALTA’ VS CONSENSO

Insomma la verità non consiste più nella corrispondenza, nell’accordo, tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica e concettuale (adaequatio rei et intellectus), ma fra la realtà e il consenso. E questo mi riporta immediatamente al totalitarismo, regime capace di mobilitare le masse nel nome di una ideologia o di una nazione.

TOTALITARISMO

Un modo gentile, totalitarismo, per definire il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, per citarne i più recenti, dove il tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, imponendo l’assimilazione di una ideologia era la norma. Il partito che controlla lo Stato non si limita cioè a imporre direttive, ma vuole mutare radicalmente il modo di pensare e di vivere della società stessa. Ed ecco che il collegamento ad alcuni movimenti politici e guru che si ergono a motivatori diventa automatico.

In fondo la base del totalitarismo recente, non è il prodotto di élite culturali, di conoscenza e sapere ma di grande masse, come ben scriveva Elias Canetti in “massa e potere”, quasi 60 anni fa.

Insomma l’irruzione di internet ha agevolato un fenomeno che ha sostituito la conoscenza e il ragionamento critico con l’informazione di massa, vorace e poco controllabile, capace di manipolare e di rallentare la riflessione. Meglio cercare il consenso piuttosto che la verità.

NUOVA IGNORANZA

Non per nulla si parla di Nuova ignoranza, un fenomeno che premia la performance e dove la trasmissione del sapere diventa occasionale e deformata.  Il presunto pubblico colto si fa padrone della conoscenza, grazie al dilagare di libri di massa dai contenuti incerti e di indubbio valore e alle prediche che si ergono da palchi dove le star di turno accendono gli animi attraverso tecniche manipolatorie. Scambiate per sapere.

Essere conosciuti da chi non si conosce è la nuova definizione di fama.

SO DI NON SAPERE

Il rimedio è semplice: partire dal presupposto di non sapere, e di farsi spiegare le cose che da chi le vive, le conosce per davvero e poi procedere con approfondimenti e interpretazioni. Credere di sapere più degli altri (e quali altri…), la nuova ignoranza appunto è “una forma di prevaricazione culturale, aggressiva quanto il colonialismo”, dice Maurizio Bettini, sapiente filologo, latinista e antropologo italiano che consiglio a tutti di seguire. Attenzione: non è un guru, è “solo” un professore, colto e saggio… non imbonisce, non motiva, ma appassiona. E genera Cultura. Quella vera, di una volta. Priva di effetti collaterali dannosi.