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Il PRANZO è per CHI non ha NIENTE da FARE. Siamo sicuri che sia proprio così?

Molti di noi sono cresciuti con l’idea che lavorare fino a tardi, essere sempre super incasinati, avere orari folli, sia cool. Ci renda agli occhi degli altri, persone di valore, importanti. Degni di ammirazione.

Studi recenti lo confermano: sono considerati “moralmente ammirevoli” coloro che si impegnano molto indipendentemente dai risultati. Con la differenza, rispetto il passato, che “è il lavoro, non il tempo libero, il significante dello status sociale dominante”.

Benchè, l’essere indaffarati non è esattamene sinonimo di risultati, e nemmeno un indicatore affidabile per identificare i talenti, sono ancora molte le organizzazioni che premiano e promuovono chi fa l’alba alla scrivania. Nonostante i dati dimostrino che “quando si sovraccaricano i dipendenti, facendo dipendere gli incentivi dalla quantità di tempo lavorato, la produttività e l’efficienza diminuiscono”.

La busyness, la povertà di tempo, ha un impatto negativo molto forte sulle persone, in quanto incide sul coinvolgimento e aumenta l’assenteismo.

IL POTERE DELLA BUSYNESS

Ci sono tre ragioni dietro la nostra incessante ricerca di cose da fare:

1) Giustificazione allo sforzo. Più siamo impegnati a raggiungere un obiettivo, più lo apprezziamo. Anche per compiti privi di significato. Questo perché più un’attività è impegnativa, più ci sentiamo coinvolti. E questo finisce per spingerci a giustificare la fatica che facciamo, senza accorgersi che il burnout è dietro l’angolo.

Purtroppo, una volta che la cultura della busyness si è insediata in un contesto, tende a persistervi. Eradicarla diventa un’impresa titanica.

Pensateci: se fin dai primi giorni in una nuova realtà, ci viene mostrato che non c’è un preciso orario di inizio e fine, tenderemo a uniformarci agli altri per essere accettati, fino a che diventeremo parte integrante di quel sistema. Raramente lo metteremo in discussione. Vuoi perché aspiriamo a una promozione, un aumento di carriera o responsabilità o anche solo non vogliamo perdere il ruolo acquisito. Come in un circolo vizioso, a nostra volta imporremo ai nuovi arrivati, la medesima dedizione, dandola per normale.

2) Avversione all’ozio: preferiamo fare qualcosa che ci tenga occupati piuttosto che aspettare 15 minuti senza fare nulla, a patto di riuscire a trovare una giustificazione per agire in questo modo.

E’ la stessa cosa che avviene in aeroporto. Molte volte occorre seguire un percorso piuttosto lungo prima di arrivare alla zona di recupero bagagli: questo ha il solo scopo di tenerci occupati, far guadagnare tempo agli addetti allo scarico delle valigie e farci tollerare meglio il tempo di attesa della nostra borsa.

3) I clienti si comportano allo stesso modo. Tendiamo a credere che il valore di un prodotto sia direttamente proporzionale all’impegno profuso. Uno studio ha dimostrato che i partecipanti apprezzavano di più oggetti (un dipinto, una poesia, ecc) e li valutavano meglio in termini di qualità e valore quando pensavano fossero stati prodotti con uno sforzo maggiore. Una ricerca ha inoltre scoperto che i clienti di un bar apprezzavano di più il servizio quando un panino veniva preparto davanti a loro, quando cioè potevano osservare il lavoro che stava dietro il prodotto, rispetto a quando il panino veniva solo consegnato.

COME FERMARE LA BUSYNESS

–        Premiate i risultati

Pagare le persone per lo sforzo e non per i risultati, le spinge a incrementare lo sforzo ma non la produttività. Una ricerca ha dimostrato che quando le persone impegnate in un’attività collaborativa si differenziano solo per le abilità naturali e vengono pagate sulla base del tempo profuso, finiscono per lavorare più a lungo ma meno intensamente, ottenendo meno risultati. In parte perché percepiscono una sorta di ingiustizia in un incentivo economico uguale per tutti.

Risultati simili si sono avuti con uno studio condotto nelle professioni legali. La tendenza degli studi legali a promuovere gli associati che hanno il maggior numero di ore fatturabili porta a una mentalità improntata alla competizione sfrenata e fa sì che gli avvocati lavorini troppe ore e siano inefficienti.

Per incentivare la produttività, una retribuzione più legata ai risultati può essere utile purchè non sia il solo indicatore preso in considerazione. Inseguire le ricompense può portare a superlavoro e burnout parimenti a considerare solo lo sforzo profuso slegato dai risultati.

Un mix fra i due è utile sia per incoraggiare l’innovazione e l’assunzione di rischi, sia per massimizzare la produttività. Così da trasmettere il messaggio che non si dà valore solo alla busyness.

–        Qualità del lavoro

Spesso ciò di cui vengono sovraccaricati i dipendenti sono attività che poco li coinvolgono, cosi da costringerli al multitasking, pur sapendo che il multitasking riduce la produttività fino al 40%.

Utile potrebbe essere chiedere alle persone di valutare le attività che svolgono su una scala da 1 a 5, indicando quanto la ritengono impegnativa dal punto di vista cognitivo. Così da poter eliminare le attività superficiali o demandarle.

  • Spingete le persone a prendersi una pausa

C’è la paura, in molti manager, che se ai dipendenti fossero date ferie illimitate questi ne approfitterebbero. Eppure, sono molti coloro che non esauriscono i giorni di vacanza retribuita annualmente e altrettanti lavorano anche quando sono in ferie.

Gli studi mostrano come la maggior parte dei dipendenti controlla la posta aziendale quando non è in ufficio, tant’è che questo ha spinto governi come Francia, Spagna e Portogallo ad approvare leggi che impongono alle organizzazioni di consentire ai lavoratori di disconnettersi fuori dall’orario di lavoro.

Nel 2014 la casa automobilistica tedesca Daimler (ora Mercedes Benz) ha consentito di utilizzare, quando erano fuori ufficio, un programma di posta elettronica che cancellava automaticamente le email in entrata e informava i mittenti che le loro mail erano state cancellate e che in caso di emergenza chi si poteva contattare.

  • Manager, date l’esempio!

Per incentivare il benessere a scapito del busyness dare il giusto esempio è sicuramente una delle strategie più efficaci. Se arriva dal vertice!

  • Allentare il tiro

Sebbene assumere più risorse è, a ragione, una scelta poco vantaggiosa sull’immediato, è in realtà una buona strategia soprattutto quando si tratta di gestire una crisi e si cerca di mantenere gestibile il carico di lavoro quotidiano nel tempo. Banale, ma come tutte le cose all’apparenza banali, sottovalutate. Accrescere le risorse è un costo ma non lo è meno perdere talenti.

In conclusione, attenzione a non confondere l’attività con i risultati. Non necessariamente chi è molto occupato è anche parimenti produttivo. Premiare chi si ferma fino a tardi, più di chi in un minor numero di ore porta maggiori risultati, accresce il rischio di creare un ambiente tossico dove non tutti vogliono lavorare o rimanere. In parte, le nuove generazioni ce lo stanno già dicendo, magari non nel modo che ci piace sentire e forse un po’ estremizzato. Ma rivedere collaudate abitudini, potrebbe prevenire impatti che oggi neanche riusciamo a immaginare. O forse sì, ma ci rifiutiamo di farlo.

FARE le COSE da SOLI (NON) è da SFIGATI. Vi dico perché!

C’è chi preferisce fare le cose da solo. Andare al ristorante, al cinema, viaggiare, fare sport. E c’è chi, da solo, non pranzerebbe nemmeno alla mensa aziendale.

Io appartengo al primo gruppo. Forse, un tempo, sarei stata meno netta ma, ad esempio, rinunciare a una mostra perché il gruppo di amici non è interessato, è un’opzione che difficilmente prendo in considerazione.

Soddisfare la mia curiosità, insomma, ha la meglio sulla condivisione di esperienze.

Al riguardo, mi sono interrogata spesso e non meno recentemente quando, per una serie di circostanze, mi sono trovata a scegliere fra un viaggio in un luogo che già conoscevo con amici poco propensi all’avventura e un fly & drive verso mete poco battute. La decisione è stata semplice e automatica. Ciò che però mi ha stupito è la riluttanza (e la paura) che ho trovato, in molti, a fare le cose da soli. “Piuttosto, rinuncio. E’ deprimente e davvero poco divertente fare le cose da soli”. In una parola da sfigati.

Ma è realmente così?

COSA DICE LA SCIENZA

Uno studio, ha cercato di scoprirlo. A un gruppo di persone, invitate a visitare una galleria d’arte, da sole o in compagnia, è stato chiesto quanto pensassero si sarebbero divertite. Ciò che è emerso è che, prima dell’esperienza, le persone che avrebbero visitato la galleria da sole, si aspettavano di divertirsi poco. Molto se in compagnia.

Al termine della visita, è stato loro chiesto un feedback, scoprendo che si erano divertite tanto sia da sole sia quando erano accompagnate.

Non sempre c’è un amico che può affiancarci, e questo porta molte persone a perdere esperienze piacevoli per la paura di farle da soli.

Eppure, ulteriori ricerche hanno dimostrato che chi svolge una attività in solitaria è spesso percepito positivamente, più di chi svolge la stessa attività con un compagno. Poiché chi svolge un’attività da solo, è chiaro che fa ciò che fa per piacere e interesse, chi lo fa con altri potrebbe fare ciò che fa solo per trascorrere del tempo con gli amici.

Di conseguenza, scopriamo che le persone pensano che chi fa volontariato in una mensa per i poveri da solo, sia più altruista di chi fa volontariato alla stessa mensa con amici.

In un altro esperimento (un’attività pubblicizzata sui social di un pomeriggio rilassante a fare dolci al cioccolato, seguito dalle parole “da solo” o “con gli amici“, insieme a una foto accattivante dei cioccolatini), è emerso che le persone pensavano che a imparare a fare il dolce fosse più interessato chi aveva svolto l’attività in solitaria, rispetto a chi avrebbe partecipato con gli amici.

LA PAURA DI ESSERE PERCEPITI SOLI

In un secondo documento di lavoro, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti a uno studio quanto fossero propensi ad avviare una conversazione con qualcuno che era da solo o con un amico.

Hanno riferito di essere più propensi ad avviare una conversazione con chi è solo, perché credevano che la persona sarebbe stata più aperta. Parlare con persone nuove può dare nuove prospettive e la ricerca mostra che parlare con estranei può essere ancora più piacevole che parlare con qualcuno che già si conosce bene.

Ovviamente c’è una predisposizione individuale e non sarebbe funzionale snaturarsi. Ciò che però non ci fa bene è rinunciare a delle esperienze ed attività, se in quel contesto e in quel momento, non abbiamo nessuno con cui farle.

A 22 anni, 30 anni fa, ho visitato la Giordania in solitaria. Al tempo nessuno dei miei amici si sarebbe avventurato in quella terra ancora così poco turistica e di cui si parlava molto poco, così poco trendy, ma è una delle esperienze più belle della mia vita. Mi ha regalato un grande senso di libertà e la convinzione che si può stare bene anche da soli, in certi momenti della vita. E che fare le cose da soli può regalare emozioni diversamente possibili in gruppo.

E voi, qual è la vostra esperienza in solitaria? Cosa vi ha regalato? La rifareste?

Ulteriori letture e risorse

  • Ratner R.K., Hamilton R.W. (2015). Inhibited from bowling alone. Journal of Consumer Research, 42(2), 266-283. (Link)
  • Epley N., Schroeder J. (2014). Mistakenly seeking solitude. Journal of Experimental Psychology: General, 143(5), 1980-1999. (Link)
  • Dunn E.W., Biesanz J.C., Human L.J., Finn S. (2007). Misunderstanding the affective consequences of everyday social interactions: The hidden benefits of putting one’s best face forward. Journal of Personality and Social Psychology, 92(6), 990-1005. (Link)

MEGLIO un’AZIENDA con o senza CAPO?

Per molti può essere pacificante pensare di lavorare in un’azienda dove non solo non ci sono capi e subalterni, ma dove a regnare è una sorta di autogestione in cui ognuno è manager di sé stesso. O meglio tutti sono employeneurs, crasi fra employee e entrepreneur, un mix fra un dipendente e un imprenditore autonomo nelle decisioni.

Sembrerebbe, vista così, la soluzione perfetta per porre fine a soprusi, soprattutto umorali del capo, a battaglie infinite per fare carriera, a prevaricazioni e favoritismi. Peccato che la realtà si discosti dall’idea che ci facciamo delle cose, soprattutto di quelle che più desideriamo, più di quanto ci piace credere.

Non a caso, i risultati che la logica della self governance aveva promesso, iniziano a venir disattesi, come i ricercatori e docenti di strategia della Copenhagen Business School, della Hankamer School of Business e della Baylor University, hanno dimostrato (dopo aver esaminato le organizzazioni senza manager che sono state proposte – e occasionalmente adottate – negli ultimi 50 anni).

SELF GOVERNANCE PUNTI DI FORZA

L’adozione dell’approccio “senza capo” si può sintetizzare in 5 punti:

  1. Gestione personale del tempo. Si lavora per risultati, ognuno con specifiche responsabilità, pertanto nessuno controllerà quanto si sta dietro una scrivania, quindi il tempo si può gestire a proprio piacimento, purché si portino risultati.
  2. Trasparenza e fiducia. In un’azienda che segue il principio della self governance, i dipendenti hanno accesso a tutte le informazioni della compagnia, compresi conti e bilancio. L’azienda è quindi trasparente. Il che dovrebbe comportare un grande clima di fiducia tra i lavoratori, che condividono anche valori e obiettivi.
  3. Collaborazione tra colleghi. L’organizzazione in team autonomi e paritari, senza capi su cui fare affidamento e sui quali scaricare colpe e responsabilità di qualsiasi malfunzionamento, favorisce la responsabilità personale e la collaborazione.
  4. Confronto. Nella maggior parte delle aziende gestite tradizionalmente esiste spesso una grande distanza tra ceo e dipendenti. Nelle aziende senza capo, invece, c’è un dialogo continuo e una condivisione di idee e punti di vista, che aiutano il buon funzionamento aziendale. Anche dal punto di vista finanziario.
  5. Migliori performance. Secondo “The How Report” di LRN (Learning Resource Network), nelle aziende senza capo il clima favorevole sul posto di lavoro aumenta la produttività, garantendo migliori performance. I casi di cattiva condotta nelle aziende basate sulla self governance sono rarissimi. E questo genera anche maggiore soddisfazione da parte dei clienti, con migliori performance di mercato.

Insomma, la self governance sembra che faccia bene non solo ai lavoratori, ma anche al bilancio.

LE NUOVE EVIDENZE

I ricercatori hanno raggruppato le teorie di Gary Hamel, Michele Zanini e Frederic Laloux e gli approcci alla gestione decentralizzata, come l’olocrazia e l’agile, sotto il termine di “bossless company narrative”, narrativa aziendale senza capo, sostenendo cheLe aziende quasi senza boss – e non ce ne sono molte – non sono generalmente o in modo dimostrabile migliori di quelle tradizionalmente organizzate. I capi contano, non solo come prestanome, ma come designer, organizzatori, incoraggiatori ed esecutori“.

Foss e Klein, questi i nomi dei due ricercatori, hanno dettagliato con grande precisione le loro conclusioni contro la narrativa aziendale senza boss, pur sapendo quanto sia di difficile da contestare, specialmente nell’ambito delle grandi imprese.

Schemi come l’olocrazia, in cui le decisioni sono prese dai team, possono funzionare per piccole aziende con proprietà distribuita, ma non nelle grandi come, ad esempio, Zappos, che hanno molti più dipendenti e richiedono forte coordinamento. Anche l’agilità tende a funzionare più nell’esecuzione di progetti che nella gestione di intere organizzazioni.

Pur evidenziano le promesse disattese della self governance, gli autori, riconoscono le sfide e le opportunità create da questo approccio. “Siamo d’accordo sul fatto che ci sia la necessità di una ridefinizione del ruolo di gestione tradizionale“. Su una cosa però sono fermamente convinti “Ogni azienda deve ridefinire la propria struttura di gestione  e i propri ruoli, per se stessa. (…) Quando si tratta di struttura organizzativa, non ci sono soluzioni valide per tutti“. Ecco perché non ci si deve buttare a capofitto su soluzioni alla moda, e studiare cosa è più utile per il contesto specifico in cui si opera.

LA MIGLIORE GERARCHIA

Qual è, dunque, la dimensione e la forma gerarchica che meglio si adatta alla propria azienda?

La chiave è trovare il giusto mix di due forze, spesso opposte. “La prima è il desiderio, comune a tutti noi, di empowerment e autonomia, che aiuta le aziende a stimolare la creatività dei dipendenti e sfruttare le loro conoscenze e capacità uniche. La seconda è il fatto che gli ambienti caratterizzati da rapidi cambiamenti spesso richiedono che ci sia una gerarchia chiara e definita, in particolare quando le attività sono interdipendenti e le persone da sole non possono apportare gli adeguamenti richiesti“.

Trovare il giusto mix richiede di pensare a come ripartire l’autorità. “L’autorità ha molte facce. Autorità può significare il diritto di assumere e licenziare, istruire, supervisionare, intervenire e sanzionare. Ma l’esercizio dell’autorità manageriale è associato anche ad altri comportamenti: guidare, creare strutture e processi, forgiare il consenso, allineare il comportamento attorno a obiettivi condivisi e promuovere il cambiamento“.

Gli autori etichettano il primo insieme di comportamenti come autorità “Mark I” e il secondo come autorità “Mark II”. I manager dovrebbero essere autorizzati e preparati a esercitare entrambi, ma c’è di più. “Esercitare l’autorità in modo intelligente significa capire quali decisioni delegare, chi mettere in posizioni chiave e quando intervenire, oltre a decidere se il sistema deve essere rivisto in risposta alle mutevoli condizioni“.

Il modo in cui un’azienda risponde a queste domande definisce la sua gerarchia. “Per rispondere correttamente è necessario considerare diversi fattori, tra cui la velocità del processo decisionale, la conoscenza dei dipendenti, la giustizia procedurale, ecc”. Ad esempio: “Se il tempo è essenziale, se c’è un alto grado di urgenza decisionale, allora l’alternativa migliore è spesso avere top manager che prendono decisioni senza cercare e aspettare il consenso“.

In definitiva, il messaggio è che la narrativa aziendale senza capo è altrettanto imperfetta della versione di comando e controllo della gestione di Frederick Taylor. I manager contano e continueranno a contare, ma i loro ruoli cambieranno nel tempo. “Quello che vogliamo“, dichiarano Foss e Klein, “è una gerarchia ben funzionante“.

Insomma, prima di abbracciare un movimento, per quanto allettante e stimolante sia, mettiamolo in discussione quel tanto che basta per capire se fa al caso nostro e se ne abbiamo davvero bisogno. In quel momento.

Prendere DECISIONI COMPLESSE è come giocare a SCACCHI… anzi, più difficile!

Prendere decisioni semplici è un po’ come ordinare al ristorante: si valutano le opzioni disponibili e poi si sceglie quella che promette di offrire la massima gratificazione.

Quando si tratta di scelte complesse, come acquistare una casa, ideare un business plan o valutare le polizze assicurative, identificare oggettivamente l’opzione migliore è poco pratico e spesso impossibile.

La scelta di un piano di assicurazione sanitaria, ad esempio, richiede la stima della probabilità di aver bisogno o meno di una biopsia o di un’appendicectomia, un gioco di indovinelli a più livelli che sarà inevitabilmente pieno di errori.

La stessa cosa vale quando si deve scegliere una strategia di marketing: ogni potenziale mossa apre la porta a una miriade di reazioni da parte di clienti e competitors, portando a milioni di possibili scenari, ognuno dei quali il decisore può prevedere solo in modo imperfetto.

Quindi cosa occorre fare quando, in un processo decisionale, le alternative disponibili sono così complesse da non capire quanto valga ogni opzione?

A cercare di rispondere, i ricercatori della Kellogg School, avvalendosi di un laboratorio insolito: la scacchiera.

Utilizzando dati di 200 milioni di mosse da una piattaforma di scacchi online, i ricercatori sono arrivati a nuove conclusioni su come i giocatori trovano la loro strada attraverso la complessità.

Hanno scoperto che rallentare aiuta ma che i più bravi necessitano di molto più tempo decisionale extra rispetto i meno esperti. E contro intuitivamente che, aggiungere un’opzione mediocre, può essere peggio che aggiungerne una pessima.

Come i giocatori di scacchi prendono decisioni

Gli scacchi hanno diverse caratteristiche che li rendono perfetti per studiare le decisioni complesse.

La qualità di ogni mossa può essere classificata oggettivamente. A differenza di un piano assicurativo o di una strategia di marketing, dove misurare e classificare accuratamente ogni singola alternativa è raramente possibile, alcune mosse degli scacchi possono essere chiaramente identificate come parte di una strategia vincente: mosse che garantiranno una vittoria, indipendentemente da ciò che fa l’avversario. Allo stesso modo in caso si voglia un pareggio o una sconfitta.

Per quanto bizzarro, il gioco degli scacchi è riconducibile a mosse vincenti e non, predefinite, come dimostrato più di un secolo fa dal matematico tedesco Ernst Zermelo.

Eppure, nonostante ci sia la possibilità di valutare oggettivamente ogni mossa, la natura del gioco spesso rende difficile anche per i giocatori esperti distinguere una buona mossa da una cattiva. Di conseguenza, il modello standard del processo decisionale, in cui una persona valuta le opzioni una per una e poi seleziona l’alternativa migliore, in genere non si applica. L’enorme numero di mosse disponibili rende impossibile valutare ogni opzione (specialmente negli scacchi di velocità).

Pertanto, i giocatori in genere considerano solo un piccolo sottoinsieme di tutte le opzioni possibili e scelgono la prima che considerano abbastanza buona, cioè la prima mossa che credono produrrà una vittoria, una strategia che gli economisti chiamano “soddisfacente”.

Dato che molte decisioni del mondo reale richiedono anche un approccio soddisfacente, i ricercatori della Kellogg School hanno pensato che studiare come i giocatori si muovono sulla scacchiera, aiuti a capire meglio le dinamiche del processo decisionale complesso.

Un database monumentale di mosse scacchistiche

I dati presi in esame provengono da Lichess.org, uno dei più grandi server di scacchi online del mondo. Il database comprende otto anni di giochi, centinaia di milioni di mosse di centinaia di migliaia di giocatori (hobbisti e grandi maestri).

È importante sottolineare che i dati dicono non solo quale pezzo si è mosso e dove, ma la configurazione completa in ogni momento di gioco.

I ricercatori si sono concentrati su ciò che i giocatori chiamano “endgame”: scenari con un numero limitato di pezzi rimasti sulla scacchiera, e dove entrambi i giocatori stanno tentando lo scacco matto. In particolare, scenari con meno di sei pezzi sono stati utili perché sono stati “risolti” usando i computer, cioè per qualsiasi configurazione di sei pezzi sulla scacchiera, gli informatici hanno catalogato tutte le possibili mosse e come si inseriscono in una strategia che può garantire una vittoria, una sconfitta o un pareggio.

Ma ottenere i dati sulle mosse effettive è stato solo l’inizio. Per ogni finale, Salant e Spenkuch, questi i nomi dei due ricercatori, dovevano determinare tutte le possibili mosse che il giocatore avrebbe potuto fare, e se ognuna di queste era vincente, perdente o un pareggio.

Un lavoro di ricerca enorme, che ha richiesto 600.000 ore e dati contenenti 4,6 miliardi di ipotetiche mosse.

Chi prende la decisione giusta in situazioni complesse?

Gli studiosi hanno iniziato osservando come il grado di complessità influisse su quali opzioni venivano scelte.

Il modello economico standard di scelta prevede che le mosse vincenti più complesse (quelle che richiedono più passaggi intermedi per ottenere uno scacco matto) dovrebbero essere scelte più frequentemente rispetto alle mosse vincenti meno complesse. Salant e Spenkuch scoprirono che questo non era il caso negli scacchi: maggiore era la complessità di una mossa vincente, meno frequentemente veniva scelta, presumibilmente perché il percorso verso la vittoria era più confuso.

I ricercatori hanno scoperto poi che il livello di abilità di un giocatore influenza il processo decisionale: i migliori giocatori al mondo avevano meno probabilità dei meno esperti di commettere un errore. Divario che si è fatto via via più pronunciato con l’aumentare della complessità delle mosse vincenti, suggerendo che l’esperienza dei migliori giocatori li avvantaggiava maggiormente in scenari particolarmente difficili.

 I livelli di abilità dei giocatori hanno anche influenzato il modo in cui si sono comportati sotto la pressione del tempo. Prevedibilmente, i giocatori titolati hanno commesso meno errori rispetto ai non professionisti, indipendentemente da quanto tempo è stato dato loro per scegliere le mosse.

Ma la differenza era minore nelle varietà più frenetiche di scacchi di velocità che si concludevano in pochi minuti. Nelle partite più lente, quando il tempo di decisione era meno limitato, i giocatori non professionisti erano considerevolmente più propensi a fare una mossa sbagliata. A beneficiare maggiormente del tempo, per pensare, sono i giocatori esperti.

Interessante è notare come i giocatori non sembravano in difficoltà di fronte al “sovraccarico di scelte” quando affrontavano un gran numero di mosse possibili: in realtà commettevano meno errori quando erano disponibili più mosse, probabilmente perché gran parte delle alternative in questi scenari erano mosse vincenti.

In pratica, per usare le parole dei ricercatori “Puoi aggiungere tutte le mosse vincenti che vuoi. Ciò non comporterà ulteriori errori. Se vuoi rendere il problema il più difficile possibile, devi aggiungere opzioni che non sono ottimali ma abbastanza vicine ad essere ottimali“.

Navigare nella complessità nel mondo reale

Per i ricercatori, “in ambito aziendale, è importante capire come le persone prendono decisioni a livello elementare“. Questo dice molto di come si approcceranno a quelle complesse. Ovviamente, il contesto lavorativo è più articolato di quello di un tavolo da gioco, a meno che ci si stia giocando i guadagni di una vita, o la vita stessa.

Tuttavia, ci sono lezioni che possono essere utili:

  • I leader aziendali non dovrebbero presumere che un dipendente con le migliori prestazioni sceglierà l’opzione giusta in una crisi, in una frazione di secondo, ad esempio, poiché i dati degli scacchi suggeriscono che i benefici dell’esperienza svaniscono quando c’è scarsità di tempo.
  • Non necessariamente una soluzione sarà quella scelta, senza contare che in questi casi, il paradosso delle scelte (troppe scelte, nessuna scelta), pare spingere a cercare la soluzione soddisfacente, anziché abbandonare il processo decisionale, come invece avviene nelle scelte semplici.

Forse queste ricerche ci aiuteranno meno di quello di cui avremmo bisogno di fronte a situazioni complesse, ma forse il bello della sfida è proprio questo: non c’è una soluzione preconfezionata. La possibilità di pensare. E al giorno d’oggi, non è poco.

AMBASCIATOR porta PENA (soprattutto in caso di cattive notizie)

Una condizione che caratterizza molte delle mie esperienze lavorative è dare cattive notizie. Prima in campo sanitario, poi all’università e infine nelle organizzazioni.

Non ci avevo fatto caso fino a qualche giorno fa, quando mi sono trovata a comunicare cattive nuove per conto terzi. E come spesso accade, ho toccato con mano quanto ambasciator non porta pena, sia un detto che nel tempo ha perso molta della sua validità.

Più portiamo cattive notizie, meno ci apprezzeranno. E a dirlo è la scienza!

 “Nella maggior parte dei casi, si tende a considerare come soggetti negativi coloro che sono portatori di cattive notizie”, sostiene lo staff del Journal of Experimental Psychology, dopo 11 esperimenti condotti sul tema.

Uno di questi ha coinvolto pazienti sottoposti a biopsia per sospetto tumore. Per comunicare loro l’esito positivo o negativo dell’esame è stato organizzato un incontro a cui erano presenti due infermiere, una con il compito di comunicare la diagnosi e l’altra per prendere un successivo appuntamento. Nel momento in cui è stato chiesto alle persone che hanno ricevuto cattive notizie di fornire un giudizio sulle due infermiere, soltanto l’infermiera “messaggera” è stata giudicata meno simpatica e meno competente.

Il giudizio negativo verso una persona che ha il compito di comunicare una notizia risulta anche in situazioni in cui è palesemente chiaro che il messaggero non ha alcuna responsabilità sull’evento negativo.

Lo scenario tipico? Quello dell’assistente di volo che viene chiamato a informare i passeggeri in attesa che, a causa di un problema tecnico, la partenza sarà ritardata.

EFFETTO MUM

Portare cattive notizie è dunque un lavoro ingrato, non a caso forte è il rischio di cadere vittime dell’effetto MUM, minimizing unpleasant messagge.

Avversione a dare cattive notizie che è determinata non solo dal fatto che si vuole proteggere il destinatario del messaggio, ma anche dalla paura che l’interlocutore si arrabbi o pensi male di noi, dalla necessità di non venire associati all’evento negativo e essere considerati meno attraenti.

Tale effetto porta quindi a minimizzare i messaggi spiacevoli, a trattenere informazioni negative e a modificare le comunicazioni per farle sembrare positive. Il problema è che alla fine il messaggero rischia di distorcere la realtà. Pensiamo all’effetto in un’organizzazione in cui ogni dipendente decide di alleggerire le notizie negative. Man mano che le informazioni si diffondono, il messaggio si allontanerà sempre più dalla verità.

SPACE SHUTTLE CHALLENGER

Il pericolo dell’effetto MUM nelle organizzazioni è stato studiato dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman, esaminando i passi che hanno portato all’esplosione dello space shuttle Challenger del 1986. Quando Feynman ha chiesto agli ingegneri quale pensavano fosse la probabilità di guasto al motore, hanno riferito tra 1 su 200 e 1 su 300. Tuttavia, quando Feynman ha posto la stessa domanda al capo della NASA, la risposta è stata 1 su 100.000. Queste cifre mostrano una grande discrepanza; è probabile che gli ingegneri abbiano reso le loro stime più favorevoli quando hanno riferito ai loro responsabili, che poi hanno anche abbellito le stime, e così via fino a quando i dati hanno raggiunto il capo della NASA. Quando le informazioni negative vengono continuamente distorte mentre salgono di livello, i decisori finiscono per ricevere informazioni inesatte. L’effetto MUM potrebbe aver giocato un ruolo significativo nella tragedia. Evidentemente, può avere conseguenze devastanti.

CROSS CULTURE E MUM EFFECT

Al disastro dello shuttle Challenger, che fu il risultato di una comunicazione imperfetta e di dinamiche di potere sbilanciate tra parti che condividevano tratti culturali simili, si aggiunge lo schianto del Volo Avianca 52 (un volo di linea da Bogotà a New York) nel 1990. Le cause sono da ricercarsi nella mancata condivisione di dati sul basso livello di carburante tra piloti e controllori e da incomprensioni sulla procedura di emergenza da seguire, a cui si aggiunse il problema di norme sociali intrinseche, come la difficoltà di mettere in aperta discussione l’autorità del personale più anziano (elevata distanza dal potere, tipica delle culture latino-americane).

A questo punto, seppur le cattive notizie non piacciano, quanto possiamo o un’organizzazione può permettersi il lusso di ignorare?

Il costo della comunicazione “apprensiva” può essere alto. Come affermò Sir Alec Guinness “Non ho mai saputo che le cattive notizie migliorassero evitandone la condivisione”.

27 Giugno ’23 – Speech “AI fra errori necessari, impatti possibili e buone pratiche” – Fondazione Links e AIDP Piemonte

Speech con la collega Pamela Melato: “AI fra errori necessari, impatti possibili e buone pratiche” alla Fondazione Links di Torino, all’interno dell’evento organizzato dal gruppo AIDP4Future, Hr Tech: La tecnologia al servizio delle Persone.

 

31 Maggio ’23 – Scuola Gambaro Torino – “Gli scienziati incontrano gli alunni”

Mercoledì 31 Maggio, dalle ore 10 alle 12, all’interno del progetto Penne amiche della scienza (Penne Amiche della Scienza), iniziativa volta a far incontrare gli alunni della scuola primaria con #scienziati e #divulgatori scientifici, incontrerò la classe 5B della scuola elementare Gambaro di Torino, sotto la guida dell’insegnante Daniela Spina Runza, per sensibilizzarli ai temi delle #Neuroscienze, in particolare mente, cervello, decisioni e comportamenti.

 

NON è MAI solo PIACERE (e solo DOLORE)

Quando è stata l’ultima volta che hai urlato (di dolore)?

Per me è stato qualche giorno fa, mentre cercavo di togliere un calzino dalla bocca di Byron, il mio golden retriever. Nella frenesia del gioco (per lui) mi ha morso la mano, pizzicandomi un tendine. Non è stata un’esperienza piacevole, ne porto ancora i segni.

Gridiamo quando proviamo #dolore. Ma gridiamo anche quando proviamo un #piacere immenso, gioia, grande eccitazione, un po’ come fanno i fan ai concerti dei loro cantanti preferiti.

La stessa cosa avviene con il #pianto. Piangiamo sia nei giorni peggiori sia in quelli migliori. Ai funerali e ai matrimoni, quando viviamo il brivido della #vittoria e l’agonia della #sconfitta.

Il pianto è qualcosa di curioso. In Pictures and Tears, il critico d’arte James Elkins parla di dipinti che fanno piangere: quando raffigurano eventi terribili, come la morte di un bimbo, o quando sono così belli da generare una risposta emotiva positiva alle straordinarie creazioni umane.

Non è diverso nemmeno quando #ridiamo. Si ride per cose divertenti, ma ridiamo anche quando siamo ansiosi o imbarazzati. Quando siamo felici ma anche arrabbiati.

Stessa cosa del #sorriso. E’ associato alla gioia, ma quando i ricercatori hanno chiesto alle persone di guardare una scena di un film triste, la parte di Fiori d’acciaio in cui una madre parla al funerale della figlia, circa la metà dei soggetti ha sorriso.

I PIACERI DEL DOLORE E I DOLORI DEL PIACERE

Pensiamo all’espressione che abbiamo durante un orgasmo. Assomiglia a qualcuno in agonia: quando sono state mostrate fotografie di volti durante l’orgasmo, i soggetti li hanno erroneamente identificati come volti di #dolore nel 25% delle volte.

In generale, le espressioni sono difficili da interpretare. Mi spiace distruggervi un mito ma non basta un corso di un week end per imparare a interpretare e profilare le persone. Me ne occupo da una vita e ancora non ho imparato a farlo in modo preciso e senza tenere conto del contesto…

Gli autori di un articolo su Science fanno l’esempio di due persone: una ha appena vinto un’enorme somma alla lotteria; l’altra ha visto il suo bambino di 3 anni investito da un’auto.

Guardando i loro volti, evidenziano i ricercatori, si potrebbe non essere in grado di discernerli: hanno scoperto che le persone non sono in grado di distinguere tra vincitori e sconfitti di competizioni sportive ad alto rischio quando vedono i loro volti isolati dal #contesto. È necessario, per leggere l’emotività dei volti, avere accesso anche alle posture corporee.

Pensiamo alla reazione che solitamente abbiamo nei confronti dei bambini (e di molti animali domestici). Spesso ne mordicchiamo mani e piedi, associando espressioni quali “ti mangerei tutto” e nessuno pensa che lo faremmo davvero, neanche il bambino (e il cane, o il gatto…).

In un sondaggio condotto dai ricercatori di Yale, si è scoperto che la maggior parte delle persone era d’accordo con affermazioni come:

–      Se tengo in braccio un bambino molto carino, ho l’impulso di stringere le sue gambette grasse.

–      Se guardo un bambino molto bello, voglio pizzicarne le guance.

–      Sono il tipo di persona che dirà a un bel bambino “Potrei mangiarti!” a denti stretti.

La teoria che i docenti di Yale hanno su queste reazioni è che sorgono quando i nostri sentimenti – verso la nostra band preferita, un’opera d’arte, un bambino, un animale – diventano travolgenti. Devi calmare il sistema e quindi, per compensare, generi espressioni e azioni che li contrastano, che vanno nella direzione opposta.

I ricercatori che hanno studiato le espressioni facciali durante l’orgasmo sostengono qualcosa di simile, suggerendo che l’espressione sia un tentativo di regolare un “input sensoriale troppo intenso“.

I filosofi hanno a lungo apprezzato la curiosa relazione tra dolore e piacere. Platone descrive Socrate che si massaggia la gamba dolorante dicendo: “Quanto strana sembra in qualche modo essere questa cosa che gli uomini chiamano piacere; quanto meravigliosamente è in relazione con ciò che sembra essere contrario, il dolore, per il fatto che questi due non vogliono essere presenti contemporaneamente nell’uomo, ma, qualora uno insegua uno dei due e lo prenda, più o meno è costretto in qualche modo a prendere sempre anche l’altro, come se fossero attaccati a un’unica testa, nonostante siano due”.

LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO

Nei tempi moderni, molti psicologi sostengono la teoria dell’esperienza del “processo avversario” , in base alla quale le nostre menti cercano l’equilibrio, o l’omeostasi, in modo che le reazioni positive incontrino sentimenti negativi e viceversa.

Un famoso studio che ha coinvolto paracadutisti militari è utile per rimanere sul pratico. Quando gli uomini sono saltati dall’aereo per la prima volta, erano terrorizzati, con tutti i sintomi fisici della paura. All’atterraggio provarono sollievo. Nel corso di ripetute esposizioni all’esperienza, la paura si è verificata in durate sempre più brevi e il sollievo si è evoluto in piacere, trasformando il paracadutismo da un’attività spaventosa a una eccitante.

In effetti, a volte giochiamo con il dolore per massimizzare il contrasto, in modo da generare piacere: insomma quante volte abbiamo sperimentato il dolore nell’immergere un piede nell’acqua di una vasca da bagno eccessivamente calda, per goderci poi la temperatura perfetta pochi minuti dopo. O il fuoco in bocca per l’eccesso di spezie e il sollievo e poi il piacere di una bevanda fresca subito dopo.

In questo senso, studi di laboratorio rilevano che dopo aver provato dolore, ad esempio immergendo una mano in acqua gelata, le persone riferiscono che le esperienze successive, come il gusto del cioccolato, sono più piacevoli.

DOLORE PIACEVOLE

Una serie di studi, progettati per esplorare ciò che i ricercatori chiamano dolore piacevole, prevedeva di mettere i soggetti in uno scanner cerebrale e di esporli a una serie di esperienze di calore: lieve, intenso o intermedio. Prima di qualsiasi esperienza, ricevevano un avvertimento su ciò che potevano aspettarsi, ma a volte l’avvertimento non era corretto. La grande scoperta è che mentre normalmente la quantità intermedia di calore è stata giudicata dolorosa, smette di esserlo quando è preceduta da un avvertimento, quando cioè sappiamo che un calore intenso, in questo caso, è in arrivo. Tanto da diventare, in molti casi, piacevole.

Si scopre, quindi, che se pensi che qualcosa farà davvero male e fa male solo leggermente, la magia del #contrasto può trasformare questo lieve dolore in piacere.

Ovviamente l’effetto si perde se il dolore diventa troppo intenso.

Questi esperimenti sono strani, ma l’idea principale è familiare: tutti sanno che il cibo non ha mai un sapore così buono come quando si ha fame, sdraiarsi sul divano è fantastico dopo una lunga corsa, e la vita stessa è meravigliosa quando si lascia lo studio dentistico.

Avere in tasca qualche trucchetto per ingannare i nostri sensi, può aiutarci a gestire meglio una pessima giornata, un evento drammatico o pauroso o emotivamente troppo coinvolgente. A costo zero.

Segui il consiglio, la prossima volta!

Fonti

  • Paul Bloom (2021). The Sweet Spot: The Pleasures of Suffering and the Search for Meaning. New York, NY: HarperCollins/Ecco.
  • Fredrickson B. L., Levenson R.W. (1998). Positive Emotions Speed Recovery from the Cardiovascular Sequelae of Negative Emotions. Cognition and Emotion, 12(2), 191–220.
  • Hughes S.M., Nicholson S.E. Sex Differences in the Assessment of Pain Versus Sexual Pleasure Facial Expressions. Journal of Social, Evolutionary, and Cultural Psychology, 2, 289–298. (Link)
  • Aviezer H., Trope Y., Todorov A. (2012). Body Cues, Not Facial Expressions, Discriminate Between Intense Positive and Negative Emotions. Science, 338, 1225-1229. (Link)
  • Aragón O.R. et al. (2015). Dimorphous Expressions of Positive Emotion: Displays of Both Care and Aggression in Response to Cute Stimuli. Psychological Science, 26, 259–273. (Link)
  • Solomon R.L. (1980). The Opponent-Process Theory of Acquired Motivation: The Costs of Pleasure and the Benefits of Pain. American Psychologist, 35(8), 691–712. (Link)
  • Bastian B. et al. (2014). The Positive Consequences of Pain: A Biopsychosocial Approach. Personality and Social Psychology Review, 18, 256-279. (Link)
  • Leknes S. et al. (2013). The Importance of Context: When Relative Relief Renders Pain Pleasant. Pain, 154(3), 402–410. (Link)

FRATELLI e SORELLE ci CAMBIANO la VITA

Fratelli e sorelle hanno il potere di cambiarci la vita. Possono essere un esempio per raggiungere livelli di eccellenza, ma anche una spinta verso comportamenti pericolosi e dannosi. Insomma, nel bene e nel male, condizionano le nostre scelte, la nostra affettività e il nostro futuro, più di quanto possono fare i genitori.

L’82 per cento dei bambini cresce con un fratello o una sorella, più di quanti crescano con il padre. Difficile è però capire se il legame renda l’esistenza positiva o negativa. Rapporti buoni favoriscono l’empatia, l’estroversione e il rendimento scolastico, effetti che però possono essere annullati da una famiglia eccessivamente numerosa: chi ha molti fratelli tende ad andare peggio a scuola https://www.annualreviews.org/doi/10.1146/annurev.soc.28.111301.093304)

Se invece il clima è teso, le tensioni possono spingerci a far uso di sostanze stupefacenti e causare ansia e depressione in età adolescenziale. Un comportamento prepotente può invece portarci all’autolesionismo e a forme di psicosi (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29429415)

Prendere a modello fratelli e sorelle o cercare di distinguerci, ha conseguenze non trascurabili. Gli studi dimostrano che quando abbiamo buoni rapporti con loro, tendiamo a raggiungere livelli di istruzione simili, quando invece percepiamo trattamenti difformi da parte dei genitori tendiamo ad avere risultati scolastici diversi.

Da uno studio effettuato su un milione di svedesi è emerso che il rischio di morire di infarto aumenta dopo la morte di un fratello per la stessa causa. Questo non avviene solo per motivi genetici ma anche per lo stress della perdita di una persona importante.

Che ci piaccia o no, siamo persone diverse rispetto a quelle che saremmo potute essere se fossimo figli unici. E allo stesso tempo, i nostri fratelli e sorelle sono diverse da quelle che sarebbero potuto essere se noi non fossimo mai nati.

Vale la pena ricordarlo, almeno ogni tanto.

COSA ho IMPARATO sulla VITA da chi è SOPRAVVISSUTO al SUICIDIO

C’è un solo problema filosofico veramente serio” – scriveva Camus nel 1942 ne Il mito di Sisifo – “e questo è il suicidio“.

Decisione temuta, maledetta. Non è un caso se anche i giornali, nella maggior parte dei casi, evitino di nominarlo. E non per rispetto.

Sul #suicidio (che piaccia o meno è la conseguenza di una scelta) rifletto da sempre, sia per il suo rigore filosofico (decidere di vivere, dopotutto, è l’ultimo impegno esistenzialista) sia per la ostinata provocazione. A cui si aggiungono un paio fra amici e colleghi che l’hanno optato come scelta ultima e alcune letture e film che hanno lasciato il segno.

Seppur il mio sia solo un ridicolo tentativo di svelare il sottile limite che spinge alcuni a valicarlo e altri a ricredersi, sono consapevole che seppur non siano pochi coloro che lo scelgono, molti di più coloro che lo rifuggono, non sono trascurabili nemmeno coloro nei quali, il tema in questione, provochi il sonno, per non dire la noia.

Come è accaduto con Near Death Experience: Paul (impersonato dallo scrittore francese #Houellebecq), è un impiegato che dice alla moglie che sta andando a fare un giro in bici prima di cena, ma in realtà si perde tra rocce e sterpaglie, intenzionato a suicidarsi.

Smettiamola di giocare” – direbbe Camus – “e diventiamo sinceri su ciò che conta”. Pur non essendoci alcuna indicazione che Camus abbia mai considerato di togliersi la vita; il suo saggio rappresenta un esteso esperimento mentale, che affronta l’enigma di come esistere in modo significativo in un universo assurdo.

Tornando a Paul/Houellebecq nel film è ubriaco, incapace di reggere una sigaretta, la linea della bocca costantemente all’ingiù, perché nella vita del suo personaggio, e forse anche nella sua, non c’è di che essere felici. I tentativi di suicidio sono goffi, improbabili, continuamente fallimentari.

«Paul tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza» dice. La rappresentazione della volontà di togliersi la vita è scandalosa di per sé.

Ma in assoluto la battuta, in perfetto stile Houellebecq, che rimane maggiormente impressa è quando, nei molti pensieri di cui Paul ci rende partecipi, sentiamo dire: «Un padre morto è meglio di un padre senza vita».

Brutale gioco di parole che fa subito venire in mente Clancy #Martin e il suo How Not to Kill Yourself: A Portrait of the Suicidal Mind, che inizia con un resoconto schietto del più recente dei numerosi tentativi di suicidio dell’autore.

L’ultima volta che ho cercato di uccidermi” – confessa – “è stato nel mio seminterrato con un guinzaglio per cani“.

Come Camus e Houellebecq, Martin è uno scrittore di narrativa. In How Not to Kill Yourself cerca di comprendere il suicidio sia come filosofia sia come impulso, intrecciando la storia personale, la sua profonda lettura nella letteratura sull’autoannientamento e le preoccupazioni etiche che l’immersione ispira.

Per tutta la vita” – osserva Martin – “ho temuto ed evitato la sofferenza fisica. È una sofferenza mentale che non ho potuto evitare – come del resto nessuno di noi può – ed è stato questo a motivare i miei tentativi di suicidio. Proprio quello che speravo di evitare quando pensavo alla mia morte era un dolore peggiore. Autolesionismo? No grazie. Autoestinguente? Ora hai la mia attenzione”.

Cito questo passaggio perché è intenzionalmente divertente. Martin può essere, come afferma, dipendente dall’ideazione suicidaria, ma è anche consapevole delle incongruenze di questa dipendenza.

UNA QUESTIONE DI SCELTA?

How Not to Kill Yourself riesce pienamente a introdurre la questione della #scelta.

A seguito di un incidente in auto mentre era ubriaco, Martin viene condannato a una breve detenzione in una struttura di minima sicurezza dove, durante il ricovero, gli viene mostrata la porta attraverso la quale potrebbe essere tentato di uscire. La #decisione di restare o andarsene, almeno in senso terapeutico, appartiene a lui. Se fa la seconda scelta, tuttavia, gli viene detto: “’Tieni presente che non appena lo farai – e abbiamo telecamere e allarmi, quindi sapremo quando lo farai – verrà emesso un mandato di arresto. Ma nessuno ti fermerà e nessuno di questa struttura ti inseguirà.”

L’idea del libero arbitrio e le sue implicazioni galvanizzano Martin. Nell’inquadrare il suicidio come una scelta piuttosto che come una costrizione, potremmo trovare un’azione inaspettata, anche se va subito aggiunto che una volta che la genetica o i disturbi psichiatrici entrano in gioco, l’idea di volizione diventa più complicata.

Per Clancy, invece, in How Not to Kill Yourself, la nozione di #scelta è un principio centrale, a cui attribuisce la sua capacità di rimanere in vita: “Per lo stoico, la capacità di suicidarsi è espressione fondamentale e quasi irrevocabile della nostra libertà. Seneca pone la questione in questi termini: Un uomo saggio vivrà quanto deve, non quanto può”.

Eppure, se questa sembra una giustificazione, la morte può essere la scelta più saggia e contiene anche il suo contrario. Come ammette: “Sono sempre stato libero di fare quello che volevo“. Per lui, questo ha significato rimanere in vita.

UN TENTATIVO PER APPREZZARE LA VITA?

Non so voi, ma avendo avuto a che fare con la morte e con il prima e il dopo, un numero troppo alto di volte, non ho potuto non domandarmi:

Cosa si prova a vivere sotto la costante pressione della morte…

Non ci si abitua, se è quello che verrebbe da sperare.

Paul Celan e Primo Levi, sopravvissero all’Olocausto solo per morire suicidi decenni dopo. Levé, Foster Wallace e Nelly Arcan anche loro sono morti per suicidio. Regalandoci resoconti dettagliati e intimi di come si sentissero a continuare a vivere mentre spesso o addirittura costantemente desideravano uccidersi.

Un tentativo per insegnare a chi è in bilico ad apprezzare la vita?

A negarmi tale spiraglio è un’altra scrittrice, Sarah Davys, che in A Time and a Time, ricorda due tentativi di suicidio da cui, si lamenta “non ho riportato nulla“, cioè nessuna informazione utile sulla vita o sulla morte. “È così che mi sembra di aver trascorso gran parte della mia vita avanzando passo dopo passo, costringendomi sempre a guardare l’abisso sotto i miei piedi“.

Saper (con)vivere con l’incertezza non è da tutti. E’ dimostrato che il modo in cui una persona prende decisioni è fra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari. Cinicamente, nessuno sa se arriverà alla fine della giornata, che abbia tendenze suicide o meno. La morte arriva quando vuole.

Dove sta quindi la possibilità di scelta?

Bisogna immaginare Sisifo felice“, scrive Camus alla fine del suo saggio, un riconoscimento della futilità della sua esistenza ma anche della grazia o della consolazione che deriva dalla scelta di accettare il proprio destino.

In ogni caso, per imparare a morire, dobbiamo prima imparare a vivere.