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AMBASCIATOR porta PENA (soprattutto in caso di cattive notizie)

Una condizione che caratterizza molte delle mie esperienze lavorative è dare cattive notizie. Prima in campo sanitario, poi all’università e infine nelle organizzazioni.

Non ci avevo fatto caso fino a qualche giorno fa, quando mi sono trovata a comunicare cattive nuove per conto terzi. E come spesso accade, ho toccato con mano quanto ambasciator non porta pena, sia un detto che nel tempo ha perso molta della sua validità.

Più portiamo cattive notizie, meno ci apprezzeranno. E a dirlo è la scienza!

 “Nella maggior parte dei casi, si tende a considerare come soggetti negativi coloro che sono portatori di cattive notizie”, sostiene lo staff del Journal of Experimental Psychology, dopo 11 esperimenti condotti sul tema.

Uno di questi ha coinvolto pazienti sottoposti a biopsia per sospetto tumore. Per comunicare loro l’esito positivo o negativo dell’esame è stato organizzato un incontro a cui erano presenti due infermiere, una con il compito di comunicare la diagnosi e l’altra per prendere un successivo appuntamento. Nel momento in cui è stato chiesto alle persone che hanno ricevuto cattive notizie di fornire un giudizio sulle due infermiere, soltanto l’infermiera “messaggera” è stata giudicata meno simpatica e meno competente.

Il giudizio negativo verso una persona che ha il compito di comunicare una notizia risulta anche in situazioni in cui è palesemente chiaro che il messaggero non ha alcuna responsabilità sull’evento negativo.

Lo scenario tipico? Quello dell’assistente di volo che viene chiamato a informare i passeggeri in attesa che, a causa di un problema tecnico, la partenza sarà ritardata.

EFFETTO MUM

Portare cattive notizie è dunque un lavoro ingrato, non a caso forte è il rischio di cadere vittime dell’effetto MUM, minimizing unpleasant messagge.

Avversione a dare cattive notizie che è determinata non solo dal fatto che si vuole proteggere il destinatario del messaggio, ma anche dalla paura che l’interlocutore si arrabbi o pensi male di noi, dalla necessità di non venire associati all’evento negativo e essere considerati meno attraenti.

Tale effetto porta quindi a minimizzare i messaggi spiacevoli, a trattenere informazioni negative e a modificare le comunicazioni per farle sembrare positive. Il problema è che alla fine il messaggero rischia di distorcere la realtà. Pensiamo all’effetto in un’organizzazione in cui ogni dipendente decide di alleggerire le notizie negative. Man mano che le informazioni si diffondono, il messaggio si allontanerà sempre più dalla verità.

SPACE SHUTTLE CHALLENGER

Il pericolo dell’effetto MUM nelle organizzazioni è stato studiato dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman, esaminando i passi che hanno portato all’esplosione dello space shuttle Challenger del 1986. Quando Feynman ha chiesto agli ingegneri quale pensavano fosse la probabilità di guasto al motore, hanno riferito tra 1 su 200 e 1 su 300. Tuttavia, quando Feynman ha posto la stessa domanda al capo della NASA, la risposta è stata 1 su 100.000. Queste cifre mostrano una grande discrepanza; è probabile che gli ingegneri abbiano reso le loro stime più favorevoli quando hanno riferito ai loro responsabili, che poi hanno anche abbellito le stime, e così via fino a quando i dati hanno raggiunto il capo della NASA. Quando le informazioni negative vengono continuamente distorte mentre salgono di livello, i decisori finiscono per ricevere informazioni inesatte. L’effetto MUM potrebbe aver giocato un ruolo significativo nella tragedia. Evidentemente, può avere conseguenze devastanti.

CROSS CULTURE E MUM EFFECT

Al disastro dello shuttle Challenger, che fu il risultato di una comunicazione imperfetta e di dinamiche di potere sbilanciate tra parti che condividevano tratti culturali simili, si aggiunge lo schianto del Volo Avianca 52 (un volo di linea da Bogotà a New York) nel 1990. Le cause sono da ricercarsi nella mancata condivisione di dati sul basso livello di carburante tra piloti e controllori e da incomprensioni sulla procedura di emergenza da seguire, a cui si aggiunse il problema di norme sociali intrinseche, come la difficoltà di mettere in aperta discussione l’autorità del personale più anziano (elevata distanza dal potere, tipica delle culture latino-americane).

A questo punto, seppur le cattive notizie non piacciano, quanto possiamo o un’organizzazione può permettersi il lusso di ignorare?

Il costo della comunicazione “apprensiva” può essere alto. Come affermò Sir Alec Guinness “Non ho mai saputo che le cattive notizie migliorassero evitandone la condivisione”.

27 Giugno ’23 – Speech “AI fra errori necessari, impatti possibili e buone pratiche” – Fondazione Links e AIDP Piemonte

Speech con la collega Pamela Melato: “AI fra errori necessari, impatti possibili e buone pratiche” alla Fondazione Links di Torino, all’interno dell’evento organizzato dal gruppo AIDP4Future, Hr Tech: La tecnologia al servizio delle Persone.

 

31 Maggio ’23 – Scuola Gambaro Torino – “Gli scienziati incontrano gli alunni”

Mercoledì 31 Maggio, dalle ore 10 alle 12, all’interno del progetto Penne amiche della scienza (Penne Amiche della Scienza), iniziativa volta a far incontrare gli alunni della scuola primaria con #scienziati e #divulgatori scientifici, incontrerò la classe 5B della scuola elementare Gambaro di Torino, sotto la guida dell’insegnante Daniela Spina Runza, per sensibilizzarli ai temi delle #Neuroscienze, in particolare mente, cervello, decisioni e comportamenti.

 

NON è MAI solo PIACERE (e solo DOLORE)

Quando è stata l’ultima volta che hai urlato (di dolore)?

Per me è stato qualche giorno fa, mentre cercavo di togliere un calzino dalla bocca di Byron, il mio golden retriever. Nella frenesia del gioco (per lui) mi ha morso la mano, pizzicandomi un tendine. Non è stata un’esperienza piacevole, ne porto ancora i segni.

Gridiamo quando proviamo #dolore. Ma gridiamo anche quando proviamo un #piacere immenso, gioia, grande eccitazione, un po’ come fanno i fan ai concerti dei loro cantanti preferiti.

La stessa cosa avviene con il #pianto. Piangiamo sia nei giorni peggiori sia in quelli migliori. Ai funerali e ai matrimoni, quando viviamo il brivido della #vittoria e l’agonia della #sconfitta.

Il pianto è qualcosa di curioso. In Pictures and Tears, il critico d’arte James Elkins parla di dipinti che fanno piangere: quando raffigurano eventi terribili, come la morte di un bimbo, o quando sono così belli da generare una risposta emotiva positiva alle straordinarie creazioni umane.

Non è diverso nemmeno quando #ridiamo. Si ride per cose divertenti, ma ridiamo anche quando siamo ansiosi o imbarazzati. Quando siamo felici ma anche arrabbiati.

Stessa cosa del #sorriso. E’ associato alla gioia, ma quando i ricercatori hanno chiesto alle persone di guardare una scena di un film triste, la parte di Fiori d’acciaio in cui una madre parla al funerale della figlia, circa la metà dei soggetti ha sorriso.

I PIACERI DEL DOLORE E I DOLORI DEL PIACERE

Pensiamo all’espressione che abbiamo durante un orgasmo. Assomiglia a qualcuno in agonia: quando sono state mostrate fotografie di volti durante l’orgasmo, i soggetti li hanno erroneamente identificati come volti di #dolore nel 25% delle volte.

In generale, le espressioni sono difficili da interpretare. Mi spiace distruggervi un mito ma non basta un corso di un week end per imparare a interpretare e profilare le persone. Me ne occupo da una vita e ancora non ho imparato a farlo in modo preciso e senza tenere conto del contesto…

Gli autori di un articolo su Science fanno l’esempio di due persone: una ha appena vinto un’enorme somma alla lotteria; l’altra ha visto il suo bambino di 3 anni investito da un’auto.

Guardando i loro volti, evidenziano i ricercatori, si potrebbe non essere in grado di discernerli: hanno scoperto che le persone non sono in grado di distinguere tra vincitori e sconfitti di competizioni sportive ad alto rischio quando vedono i loro volti isolati dal #contesto. È necessario, per leggere l’emotività dei volti, avere accesso anche alle posture corporee.

Pensiamo alla reazione che solitamente abbiamo nei confronti dei bambini (e di molti animali domestici). Spesso ne mordicchiamo mani e piedi, associando espressioni quali “ti mangerei tutto” e nessuno pensa che lo faremmo davvero, neanche il bambino (e il cane, o il gatto…).

In un sondaggio condotto dai ricercatori di Yale, si è scoperto che la maggior parte delle persone era d’accordo con affermazioni come:

–      Se tengo in braccio un bambino molto carino, ho l’impulso di stringere le sue gambette grasse.

–      Se guardo un bambino molto bello, voglio pizzicarne le guance.

–      Sono il tipo di persona che dirà a un bel bambino “Potrei mangiarti!” a denti stretti.

La teoria che i docenti di Yale hanno su queste reazioni è che sorgono quando i nostri sentimenti – verso la nostra band preferita, un’opera d’arte, un bambino, un animale – diventano travolgenti. Devi calmare il sistema e quindi, per compensare, generi espressioni e azioni che li contrastano, che vanno nella direzione opposta.

I ricercatori che hanno studiato le espressioni facciali durante l’orgasmo sostengono qualcosa di simile, suggerendo che l’espressione sia un tentativo di regolare un “input sensoriale troppo intenso“.

I filosofi hanno a lungo apprezzato la curiosa relazione tra dolore e piacere. Platone descrive Socrate che si massaggia la gamba dolorante dicendo: “Quanto strana sembra in qualche modo essere questa cosa che gli uomini chiamano piacere; quanto meravigliosamente è in relazione con ciò che sembra essere contrario, il dolore, per il fatto che questi due non vogliono essere presenti contemporaneamente nell’uomo, ma, qualora uno insegua uno dei due e lo prenda, più o meno è costretto in qualche modo a prendere sempre anche l’altro, come se fossero attaccati a un’unica testa, nonostante siano due”.

LA RICERCA DELL’EQUILIBRIO

Nei tempi moderni, molti psicologi sostengono la teoria dell’esperienza del “processo avversario” , in base alla quale le nostre menti cercano l’equilibrio, o l’omeostasi, in modo che le reazioni positive incontrino sentimenti negativi e viceversa.

Un famoso studio che ha coinvolto paracadutisti militari è utile per rimanere sul pratico. Quando gli uomini sono saltati dall’aereo per la prima volta, erano terrorizzati, con tutti i sintomi fisici della paura. All’atterraggio provarono sollievo. Nel corso di ripetute esposizioni all’esperienza, la paura si è verificata in durate sempre più brevi e il sollievo si è evoluto in piacere, trasformando il paracadutismo da un’attività spaventosa a una eccitante.

In effetti, a volte giochiamo con il dolore per massimizzare il contrasto, in modo da generare piacere: insomma quante volte abbiamo sperimentato il dolore nell’immergere un piede nell’acqua di una vasca da bagno eccessivamente calda, per goderci poi la temperatura perfetta pochi minuti dopo. O il fuoco in bocca per l’eccesso di spezie e il sollievo e poi il piacere di una bevanda fresca subito dopo.

In questo senso, studi di laboratorio rilevano che dopo aver provato dolore, ad esempio immergendo una mano in acqua gelata, le persone riferiscono che le esperienze successive, come il gusto del cioccolato, sono più piacevoli.

DOLORE PIACEVOLE

Una serie di studi, progettati per esplorare ciò che i ricercatori chiamano dolore piacevole, prevedeva di mettere i soggetti in uno scanner cerebrale e di esporli a una serie di esperienze di calore: lieve, intenso o intermedio. Prima di qualsiasi esperienza, ricevevano un avvertimento su ciò che potevano aspettarsi, ma a volte l’avvertimento non era corretto. La grande scoperta è che mentre normalmente la quantità intermedia di calore è stata giudicata dolorosa, smette di esserlo quando è preceduta da un avvertimento, quando cioè sappiamo che un calore intenso, in questo caso, è in arrivo. Tanto da diventare, in molti casi, piacevole.

Si scopre, quindi, che se pensi che qualcosa farà davvero male e fa male solo leggermente, la magia del #contrasto può trasformare questo lieve dolore in piacere.

Ovviamente l’effetto si perde se il dolore diventa troppo intenso.

Questi esperimenti sono strani, ma l’idea principale è familiare: tutti sanno che il cibo non ha mai un sapore così buono come quando si ha fame, sdraiarsi sul divano è fantastico dopo una lunga corsa, e la vita stessa è meravigliosa quando si lascia lo studio dentistico.

Avere in tasca qualche trucchetto per ingannare i nostri sensi, può aiutarci a gestire meglio una pessima giornata, un evento drammatico o pauroso o emotivamente troppo coinvolgente. A costo zero.

Segui il consiglio, la prossima volta!

Fonti

  • Paul Bloom (2021). The Sweet Spot: The Pleasures of Suffering and the Search for Meaning. New York, NY: HarperCollins/Ecco.
  • Fredrickson B. L., Levenson R.W. (1998). Positive Emotions Speed Recovery from the Cardiovascular Sequelae of Negative Emotions. Cognition and Emotion, 12(2), 191–220.
  • Hughes S.M., Nicholson S.E. Sex Differences in the Assessment of Pain Versus Sexual Pleasure Facial Expressions. Journal of Social, Evolutionary, and Cultural Psychology, 2, 289–298. (Link)
  • Aviezer H., Trope Y., Todorov A. (2012). Body Cues, Not Facial Expressions, Discriminate Between Intense Positive and Negative Emotions. Science, 338, 1225-1229. (Link)
  • Aragón O.R. et al. (2015). Dimorphous Expressions of Positive Emotion: Displays of Both Care and Aggression in Response to Cute Stimuli. Psychological Science, 26, 259–273. (Link)
  • Solomon R.L. (1980). The Opponent-Process Theory of Acquired Motivation: The Costs of Pleasure and the Benefits of Pain. American Psychologist, 35(8), 691–712. (Link)
  • Bastian B. et al. (2014). The Positive Consequences of Pain: A Biopsychosocial Approach. Personality and Social Psychology Review, 18, 256-279. (Link)
  • Leknes S. et al. (2013). The Importance of Context: When Relative Relief Renders Pain Pleasant. Pain, 154(3), 402–410. (Link)

FRATELLI e SORELLE ci CAMBIANO la VITA

Fratelli e sorelle hanno il potere di cambiarci la vita. Possono essere un esempio per raggiungere livelli di eccellenza, ma anche una spinta verso comportamenti pericolosi e dannosi. Insomma, nel bene e nel male, condizionano le nostre scelte, la nostra affettività e il nostro futuro, più di quanto possono fare i genitori.

L’82 per cento dei bambini cresce con un fratello o una sorella, più di quanti crescano con il padre. Difficile è però capire se il legame renda l’esistenza positiva o negativa. Rapporti buoni favoriscono l’empatia, l’estroversione e il rendimento scolastico, effetti che però possono essere annullati da una famiglia eccessivamente numerosa: chi ha molti fratelli tende ad andare peggio a scuola https://www.annualreviews.org/doi/10.1146/annurev.soc.28.111301.093304)

Se invece il clima è teso, le tensioni possono spingerci a far uso di sostanze stupefacenti e causare ansia e depressione in età adolescenziale. Un comportamento prepotente può invece portarci all’autolesionismo e a forme di psicosi (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29429415)

Prendere a modello fratelli e sorelle o cercare di distinguerci, ha conseguenze non trascurabili. Gli studi dimostrano che quando abbiamo buoni rapporti con loro, tendiamo a raggiungere livelli di istruzione simili, quando invece percepiamo trattamenti difformi da parte dei genitori tendiamo ad avere risultati scolastici diversi.

Da uno studio effettuato su un milione di svedesi è emerso che il rischio di morire di infarto aumenta dopo la morte di un fratello per la stessa causa. Questo non avviene solo per motivi genetici ma anche per lo stress della perdita di una persona importante.

Che ci piaccia o no, siamo persone diverse rispetto a quelle che saremmo potute essere se fossimo figli unici. E allo stesso tempo, i nostri fratelli e sorelle sono diverse da quelle che sarebbero potuto essere se noi non fossimo mai nati.

Vale la pena ricordarlo, almeno ogni tanto.

COSA ho IMPARATO sulla VITA da chi è SOPRAVVISSUTO al SUICIDIO

C’è un solo problema filosofico veramente serio” – scriveva Camus nel 1942 ne Il mito di Sisifo – “e questo è il suicidio“.

Decisione temuta, maledetta. Non è un caso se anche i giornali, nella maggior parte dei casi, evitino di nominarlo. E non per rispetto.

Sul #suicidio (che piaccia o meno è la conseguenza di una scelta) rifletto da sempre, sia per il suo rigore filosofico (decidere di vivere, dopotutto, è l’ultimo impegno esistenzialista) sia per la ostinata provocazione. A cui si aggiungono un paio fra amici e colleghi che l’hanno optato come scelta ultima e alcune letture e film che hanno lasciato il segno.

Seppur il mio sia solo un ridicolo tentativo di svelare il sottile limite che spinge alcuni a valicarlo e altri a ricredersi, sono consapevole che seppur non siano pochi coloro che lo scelgono, molti di più coloro che lo rifuggono, non sono trascurabili nemmeno coloro nei quali, il tema in questione, provochi il sonno, per non dire la noia.

Come è accaduto con Near Death Experience: Paul (impersonato dallo scrittore francese #Houellebecq), è un impiegato che dice alla moglie che sta andando a fare un giro in bici prima di cena, ma in realtà si perde tra rocce e sterpaglie, intenzionato a suicidarsi.

Smettiamola di giocare” – direbbe Camus – “e diventiamo sinceri su ciò che conta”. Pur non essendoci alcuna indicazione che Camus abbia mai considerato di togliersi la vita; il suo saggio rappresenta un esteso esperimento mentale, che affronta l’enigma di come esistere in modo significativo in un universo assurdo.

Tornando a Paul/Houellebecq nel film è ubriaco, incapace di reggere una sigaretta, la linea della bocca costantemente all’ingiù, perché nella vita del suo personaggio, e forse anche nella sua, non c’è di che essere felici. I tentativi di suicidio sono goffi, improbabili, continuamente fallimentari.

«Paul tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza» dice. La rappresentazione della volontà di togliersi la vita è scandalosa di per sé.

Ma in assoluto la battuta, in perfetto stile Houellebecq, che rimane maggiormente impressa è quando, nei molti pensieri di cui Paul ci rende partecipi, sentiamo dire: «Un padre morto è meglio di un padre senza vita».

Brutale gioco di parole che fa subito venire in mente Clancy #Martin e il suo How Not to Kill Yourself: A Portrait of the Suicidal Mind, che inizia con un resoconto schietto del più recente dei numerosi tentativi di suicidio dell’autore.

L’ultima volta che ho cercato di uccidermi” – confessa – “è stato nel mio seminterrato con un guinzaglio per cani“.

Come Camus e Houellebecq, Martin è uno scrittore di narrativa. In How Not to Kill Yourself cerca di comprendere il suicidio sia come filosofia sia come impulso, intrecciando la storia personale, la sua profonda lettura nella letteratura sull’autoannientamento e le preoccupazioni etiche che l’immersione ispira.

Per tutta la vita” – osserva Martin – “ho temuto ed evitato la sofferenza fisica. È una sofferenza mentale che non ho potuto evitare – come del resto nessuno di noi può – ed è stato questo a motivare i miei tentativi di suicidio. Proprio quello che speravo di evitare quando pensavo alla mia morte era un dolore peggiore. Autolesionismo? No grazie. Autoestinguente? Ora hai la mia attenzione”.

Cito questo passaggio perché è intenzionalmente divertente. Martin può essere, come afferma, dipendente dall’ideazione suicidaria, ma è anche consapevole delle incongruenze di questa dipendenza.

UNA QUESTIONE DI SCELTA?

How Not to Kill Yourself riesce pienamente a introdurre la questione della #scelta.

A seguito di un incidente in auto mentre era ubriaco, Martin viene condannato a una breve detenzione in una struttura di minima sicurezza dove, durante il ricovero, gli viene mostrata la porta attraverso la quale potrebbe essere tentato di uscire. La #decisione di restare o andarsene, almeno in senso terapeutico, appartiene a lui. Se fa la seconda scelta, tuttavia, gli viene detto: “’Tieni presente che non appena lo farai – e abbiamo telecamere e allarmi, quindi sapremo quando lo farai – verrà emesso un mandato di arresto. Ma nessuno ti fermerà e nessuno di questa struttura ti inseguirà.”

L’idea del libero arbitrio e le sue implicazioni galvanizzano Martin. Nell’inquadrare il suicidio come una scelta piuttosto che come una costrizione, potremmo trovare un’azione inaspettata, anche se va subito aggiunto che una volta che la genetica o i disturbi psichiatrici entrano in gioco, l’idea di volizione diventa più complicata.

Per Clancy, invece, in How Not to Kill Yourself, la nozione di #scelta è un principio centrale, a cui attribuisce la sua capacità di rimanere in vita: “Per lo stoico, la capacità di suicidarsi è espressione fondamentale e quasi irrevocabile della nostra libertà. Seneca pone la questione in questi termini: Un uomo saggio vivrà quanto deve, non quanto può”.

Eppure, se questa sembra una giustificazione, la morte può essere la scelta più saggia e contiene anche il suo contrario. Come ammette: “Sono sempre stato libero di fare quello che volevo“. Per lui, questo ha significato rimanere in vita.

UN TENTATIVO PER APPREZZARE LA VITA?

Non so voi, ma avendo avuto a che fare con la morte e con il prima e il dopo, un numero troppo alto di volte, non ho potuto non domandarmi:

Cosa si prova a vivere sotto la costante pressione della morte…

Non ci si abitua, se è quello che verrebbe da sperare.

Paul Celan e Primo Levi, sopravvissero all’Olocausto solo per morire suicidi decenni dopo. Levé, Foster Wallace e Nelly Arcan anche loro sono morti per suicidio. Regalandoci resoconti dettagliati e intimi di come si sentissero a continuare a vivere mentre spesso o addirittura costantemente desideravano uccidersi.

Un tentativo per insegnare a chi è in bilico ad apprezzare la vita?

A negarmi tale spiraglio è un’altra scrittrice, Sarah Davys, che in A Time and a Time, ricorda due tentativi di suicidio da cui, si lamenta “non ho riportato nulla“, cioè nessuna informazione utile sulla vita o sulla morte. “È così che mi sembra di aver trascorso gran parte della mia vita avanzando passo dopo passo, costringendomi sempre a guardare l’abisso sotto i miei piedi“.

Saper (con)vivere con l’incertezza non è da tutti. E’ dimostrato che il modo in cui una persona prende decisioni è fra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari. Cinicamente, nessuno sa se arriverà alla fine della giornata, che abbia tendenze suicide o meno. La morte arriva quando vuole.

Dove sta quindi la possibilità di scelta?

Bisogna immaginare Sisifo felice“, scrive Camus alla fine del suo saggio, un riconoscimento della futilità della sua esistenza ma anche della grazia o della consolazione che deriva dalla scelta di accettare il proprio destino.

In ogni caso, per imparare a morire, dobbiamo prima imparare a vivere.

NON ASPETTARE Godot. CERCALO. Se fosse la capacità di attendere a dirci chi (non) siamo?

Non so se ci avete mai fatto caso, ma…

… siamo in costante attesa.

Di qualcosa. Qualcuno.

Aspettiamo per vivere, aspettiamo per morire. Aspettiamo in fila per comprare la più inutile delle cose. Aspettiamo in fila per il bancomat. E se non disponiamo di abbastanza denaro aspettiamo in file più lunghe. Aspettiamo per dormire e poi per svegliarci. Aspettiamo per sposarci e poi aspettiamo per divorziare. Aspettiamo la pioggia, e qualche sopravvissuto al romanticismo aspetta l’arcobaleno, tutti gli altri il sole. Aspettiamo l’ora del pranzo e poi della cena. Aspettiamo l’ennesimo treno insieme a un gregge di altri avventori, distratti e un po’ tristi, correndo dietro alla vita che però non ha fermate.

… aspettiamo per tutta la vita.

Quasi la vita si esprimesse nelle attese. E nonostante questo perpetuo esercizio, sono in pochi a saper trarre il meglio dall’ozio forzato. Io, non ci sono mai riuscita.

Probabilmente se da piccola mi avessero sottoposto al test dei marshmallow sarei inciampata miserevolmente.

DOLCI ATTESE, MICA TANTO

Verso la fine degli anni ’60 lo psicologo Walter Mischel docente a Stanford, mise a frutto uno degli esperimenti più famosi di sempre, con l’obiettivo di testare l’autocontrollo nei bambini.

È il test del marshmallow (o della gratificazione differita), che valuta la capacità di resistere a una tentazione per riceverne una più grande in un secondo momento.

Un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolcetto e deve resistere per 15 minuti senza mangiarlo. Se si trattiene riceverà un secondo biscotto.

Per superare il test i bambini, che rimangono da soli nella stanza, si sono inventati le strategie più disparate. C’è chi allontana il dolce, chi si gira dall’altra parte e chi trova qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti, come cantare una canzone.

Nei risultati ottenuti da Mischel, il comportamento durante il test sembra poterci darci un’idea di che tipo di adulti diventeranno i bambini.

Secondo studi più recenti, negli ormai adulti partecipanti, le capacità di svolgere un test di tipo go/no go (premere più rapidamente e accuratamente possibile un bottone di fronte a un colore ed evitare di farlo di fronte a un altro) era consistente con l’autocontrollo mostrato da bambini, sia dopo 10 che dopo 40 anni. Chi aveva atteso il secondo dolce da piccolo se la cavava meglio con il test una volta adulto.

E che dire dei bambini non interessati al cibo, quelli che a un dessert avrebbero preferito un gioco? Il test è stato adattato anche in questo senso, ha detto Mischel in un’intervista al The Atlantic, perché si tratta di capire cosa influenza un bambino quando fa la sua scelta e condurlo usando delle chip da poker al posto dei dolcetti ha portato ai medesimi risultati.

La personalità non è scolpita nella pietra – ha sottolineato Mischel – e non si può comunque pensare che il futuro di una persona stia tutto in un marshmallow”.

Eppure l’autocontrollo si può allenare come un muscolo, sfruttando tecniche come quella del se-allora. Imporsi di non esagerare con i dolci è generico, lo è meno formulare qualcosa come “se mi verrà voglia di un altro pezzo di torta, allora mangerò un frutto”.

Per Mischel la prima distinzione sta in quale regione del cervello si fa carico del test: se è il sistema limbico a prevalere sarà la gratificazione immediata, più fredda invece la risposta se entra in gioco la corteccia prefrontale.

Il test ha anche mostrato grosse differenze in base alla provenienza dei bambini: un confronto tra i bambini tedeschi e un gruppo di bambini dell’etnia Nso, in Camerun, ha mostrato che solo il 30% dei primi riusciva a resistere fino all’arrivo del secondo dolce. Nei secondi si arrivava al 70%: i bambini restavano seduti e alcuni si sono appisolati nell’attesa. Le mamme Nso dicono ai loro figli che non vogliono che piangano e che fin da piccoli si aspettano siano in grado di controllare le proprie emozioni, hanno spiegato gli autori del paper.

Questo potrebbe essere uno dei motivi, ma non l’unico. Secondo la neuroscienziata Celeste Kidd anche l’ambiente nel quale cresce un bambino può influenzare come si comporterà. Se vive in un contesto di incertezze e non si aspetta che le promesse, seppur fatte da un adulto, verranno mantenute, potrebbe decidere che aspettare il secondo dolce è troppo rischioso. E se non arrivasse mai? È possibile che quello che il marshmallow test misura non sia la capacità di autocontrollo ma la fiducia nell’autorità; quando i bambini hanno la certezza che il secondo dolce arriverà, attendono anche quattro volte più a lungo.

EFFETTO LAST NAME

Questo test mi ha sempre incuriosito, forse perchè non potendo più sottopormici, ho idealizzato l’esperimento ingrandendone le aspettative. Ciò che però mi è difficile credere è il fatto che la capacità di attendere sia allenabile. Le volte che provo a migliorare le mie performance in tal senso ne esco emotivamente distrutta, vittima di forte malumore e nervosismo.

Al contempo, non posso ignorare l’effetto last name: un bias che evidenzia quanto il nostro cognome possa influenzare i nostri comportamenti. Secondo gli studiosi, le persone che hanno un cognome che inizia con le lettere dell’alfabeto dalla R alla Z sono più propense ad afferrare un’opportunità al volo rispetto a coloro il cui cognome inizia con una lettera compresa fra A e I.

A spiegare tale teoria ci starebbe il fatto che durante l’infanzia i bambini con un cognome che inizia con le ultime lettere dell’alfabeto hanno sempre dovuto aspettare. Dall’asilo alla scuola superiore, la vita è spesso regolata dall’appello e dall’ordine alfabetico. Così, da adulti, quando una persona il cui cognome inizia con lettere dalla R in poi ha la possibilità di esercitare il controllo, vorrà finalmente essere fra le prime a cogliere una nuova opportunità. In pratica, si viene a creare una sorta di condizionamento ad agire rapidamente quanto si presenta l’opportunità.

Non tutto il male viene per nuocere. Ecco quindi che pur non sapendo aspettare, ho imparato a sfruttare ciò che accade a mio vantaggio.

Mentre sfoglio non poche ricerche che dicono cose simili, dissimili e contrarie, esercitando la mia pazienza certosina nel leggere l’impossibile, ma è sempre meglio che attendere con le mani in mano, sono consapevole del fatto che non sono l’unica a combattere l’impossibile battaglia dell’attesa. E da loro traggo aspirazione…

Per Kafka la vita era “un’attesa prima della nascita”, Beckett l’ha trasformata in un libro Aspettando Godot.

Michelangelo la considerava come “il futuro che si presenta a mani vuote”.

Simone Weil definiva l’attesa “il mendicante di Dio”. “La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso.

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”, scrive Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile“, scriveva Pavese, non a caso ne Il mestiere di vivere.

Bukowski “Aspettavi nello studio di uno strizzacervelli con una masnada di psicopatici e ti chiedevi se lo fossi anche tu”.

Nel mondo dei folli, l’attesa non ha orologio, mi ritrovo a pensare mentre l’attesa è giunta a capolinea.

Quanto tempo è per sempre?” chiede Alice.

Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

E quanto tempo è un secondo?”;

Quando ami, un’eternità”.

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

PERCHE’ CREDIAMO di MERITARE ciò che OTTENIAMO? Ignare vittime della fallacia del MONDO GIUSTO

Non so se anche voi siete fra coloro che credono che il mondo sia giusto e di conseguenza, è la moralità delle proprie azioni a determinare i risultati. O più semplicemente: chi fa del bene sarà premiato e chi ha comportamenti discutibili e cattivi sarà punito.

Io sono fra questi, non so se è per una visione romantica della vita o se (questa seconda opzione è più probabile) sono vittima della fallacia del mondo giusto, una trappola mentale capace di regalarti un profondo senso di pace e di giustizia se solo ti abbandoni all’idea che se fai del bene e sei buono verrai ampiamente ricompensato.

NEL QUOTIDIANO

È sabato sera e con amici siamo al ristorante. Rilassati e soddisfatti, a fine cena, ci dirigiamo al parcheggio. L’atteggiamento ironico e burlone di uno dei nostri amici muta bruscamente quando si accorge che la portiera dell’auto è spalancata e il laptop è sparito.

Consoliamo l’amico, cercando insieme di capire come sia potuto accadere, mentre lui continua a tormentarsi e ripetere “devo aver lasciato le porte aperte e il computer in bella vista”. Inevitabilmente, l’idea che il nostro amico sia distratto e confusionario avrà il sopravvento su di noi.

Ecco che siamo caduti vittime della fallacia del mondo giusto. Una #convinzione capace di modellare la nostra #percezione: presumiamo che ciò che accade si ripeta e quindi, razionalizziamo la sfortuna del nostro amico come conseguenza delle sue azioni o caratteristiche o abitudini negative. Arrivando persino a distorcere la nostra percezione sulla persona per trovare una ragione per cui a venir derubato è stato lui e non noi.

EFFETTI INDIVIDUALI

Questa credenza, da un lato, può motivarci ad agire con moralità e integrità, tuttavia, il mondo non è sempre così giusto come vorremmo che fosse. Attenendoci strettamente a tale ipotesi di fronte all’ingiustizia, è più facile trarre conclusioni e giudizi imprecisi sul contesto che ci circonda.

Le persone compiono sforzi enormi per correggere i torti e quindi contribuire a ripristinare la giustizia nel mondo. Spesso però, il desiderio di vivere in un mondo giusto non porta alla giustizia, ma alla giustificazione[1]. Invitano a riflettere gli psicologi dell’UCLA.

La ferma #convinzione in un mondo giusto produce un pregiudizio cognitivo che può portare a giustificare la sofferenza di una persona dipingendola negativamente o minimizzando del tutto la sua sofferenza.

Nel quotidiano questa fallacia potrebbe applicarsi nel presumere che chi ha un lavoro scarsamente retribuito lavori meno duramente e seriamente di chi è ritenuto di successo. Creiamo cioè false narrazioni per proteggere la nostra teoria del mondo: vogliamo a tutti i costi credere che il mondo sia giusto e che se lavori duro avrai successo. Così è più facile etichettare qualcuno come pigro o demotivato piuttosto che ammettere che il mondo può essere ingiusto.

EFFETTI SISTEMICI

Il modo in cui decidiamo cosa merita una punizione e cosa una ricompensa determina il modo in cui vediamo il mondo. Questa prospettiva ha effetti significativi sugli esiti politici e legali, sul giudizio delle vittime e nei confronti dell’attivismo sociale. Gli studi scientifici hanno mostrato una correlazione inversa tra l’ipotesi del mondo giusto e l’attivismo sociale: se ritieni che il mondo sia giusto così com’è, avrai meno probabilità di agire e lottare per il cambiamento.

PERCHÉ SUCCEDE

Siamo portati a credere che il bene sia sempre premiato e il male punito. Fin dalla prima infanzia leggiamo storie di eroi coraggiosi che salvano la situazione e vengono ricompensati, i cattivi uccisi o banditi. In queste storie, i personaggi raccolgono sempre ciò che seminano. Di fatto sviluppiamo questo senso di giustizia fin da piccoli.

Come esseri umani, ci troviamo spesso di fronte a una quantità enorme di informazioni. Per dare un senso a ciò che ci circonda, costruiamo schemi per guidare il nostro processo decisionale e prevedere i risultati. L’ipotesi del mondo giusto funge da uno di questi schemi, creando una comprensione degli eventi positivi e negativi attribuendoli a una sorta di ciclo karmico più ampio.

Credere in un mondo giusto crea un ambiente apparentemente prevedibile.

Lo psicologo sociale e pioniere della ricerca sul mondo giusto, Melvin J Lerner, ha ben descritto come tale fallacia installi un’immagine di un “mondo gestibile e prevedibile, centrale per la capacità di impegnarsi in attività a lungo termine orientate agli obiettivi ”[2].

È più probabile che lavoriamo per raggiungere gli obiettivi prefissati se sentiamo di poter prevedere il risultato. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che vedere il mondo come prevedibile ed equo ci protegge dall’impotenza, che è dannosa per il benessere psicologico e fisico umano.

Spesso evitiamo o distorciamo le informazioni che mettono in discussione la nostra visione del mondo.

Quando ci sentiamo fisicamente a disagio, è automatico fare tutto il necessario per metterci a nostro agio. Questo accade anche mentalmente. Probabilmente tutti possiamo relazionarci con la sensazione di disagio quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione o siamo smentiti. A volte questo può portarci sulla difensiva o a trovare modi per invalidare le informazioni opposte.

Leon Festinger ha coniato questo fenomeno come dissonanza cognitiva: “se una persona conosce varie cose che non sono psicologicamente coerenti tra loro, cercherà, in vari modi, di renderle coerenti”. L’ipotesi del mondo giusto provoca distorsioni mentali per far fronte alle apparenti incoerenze del mondo.

PERCHÉ È IMPORTANTE CONOSCERE QUELLA FALLACIA

La forza con cui tale fallacia si manifesta può modellare la nostra comprensione del mondo. Cambia la nostra percezione degli altri. Crea aspettative. Il desiderio di giustizia non è la stessa cosa della convinzione che il mondo sia giusto. Per creare un cambiamento, dobbiamo avere la lucidità per vedere dove una situazione potrebbe essere ingiusta o prenderci il tempo per capire le reali circostanze prima di esprimere un giudizio.

COME EVITARLA

Occorre disturbare gli scienziati comportamentali Daniel Kahneman e Amos Tversky e il loro sistema di pensiero. Il sistema 1 (S1) si riferisce alle nostre risposte istintive, ai nostri giudizi rapidi, alle nostre reazioni emotive. Il sistema 2 (S2) si riferisce a un processo di pensiero più lento, razionale e calcolato. Molti dei nostri pregiudizi sono frutti di S1, inclusa l’ipotesi del mondo giusto.

Ecco perché è importante rallentare il processo attraverso il quale formiamo i nostri giudizi e considerare tutte le informazioni disponibili.

Di fronte all’ipotesi del mondo giusto, ricorrere a S2 significa fare un passo indietro così da evitare valutazioni distorte. A volte, dopo aver esaminato il quadro completo, sosterremo ancora la nostra conclusione iniziale. Forse sentiamo ancora che la punizione o la ricompensa era giustificata, e anche questo va bene. Mitigare l’impatto dell’ipotesi del mondo giusto non significa dire a noi stessi che il mondo non è mai giusto. Ciò che dobbiamo imparare è un nuovo modo di affrontare la dissonanza cognitiva invece di prendere sempre la strada più semplice con tutti i limiti, ben noti, propri delle euristiche.

Usando S2, possiamo pensare in modo critico, piuttosto che istintivamente. Questo permetterà di vedere le ingiustizie e preparare meglio noi e il mondo che ci circonda a combatterle.

COME USARE IL SISTEMA 2 

Proprio come quando impariamo una nuova abilità, ci vuole tempo e ripetizione. All’inizio, potremmo renderci conto retroattivamente quando stiamo pensando in modo prevenuto, dando un rapido giudizio. Esaminando i nostri giudizi intuitivi e considerando il contesto, possiamo coltivare il pensiero S2.

Utile è anche esercitare l’empatia. In un esperimento condotto dai ricercatori della Duke University[3], ai partecipanti è stato chiesto di guardare un video di una donna che riceveva scosse elettriche in base alla sua performance in un compito di apprendimento. Divisi in due gruppi, al primo, è stato chiesto di immaginare sè stessi nel medesimo scenario, al secondo solo di guardare il video.

I partecipanti del primo gruppo, che induceva #empatia, risultarono meno propensi a criticare la vittima, dimostrando una minore influenza dell’ipotesi del mondo giusto. Quindi, se riusciamo a ricordarci di pensare in modo razionale piuttosto che istintivo e metterci nei panni degli altri, possiamo valutare più accuratamente le situazioni.

In un altro studio, condotto durante lo scandalo del Watergate, i ricercatori dimostrarono che i partecipanti all’esperimento che erano più facili vittime dell’ipotesi del mondo giusto erano meno propensi a negare la colpevolezza di Nixon. La fallacia li portò ad associare il grande successo e il carattere forte ad alti valori etici e morali, impedendo loro di credere che Nixon fosse capace di tali atti ingannevoli.

Coloro che credono fermamente in un mondo giusto possono avere una maggiore propensione ad approvare le scelte dei leader politici a causa del presupposto che si raggiunga il successo attraverso meriti elevati e grande forza morale.

Fonti

[1] Rubin Z., Peplau L.A. (1975). Who Believes in a Just World? Journal of Social Issues, 31(3), 65–89.

[2] Lerner, M. J. (1980). The Belief in a Just World. Springer US

[3] Aderman, D., Brehm, S. S., Katz, L. B. (1974). Empathic observation of an innocent victim: The just world revisited. Journal of Personality and Social Psychology, 29(3), 342–347

OFFBOARDING: molto più di un grazie e arrivederci

C’è una pratica diffusa nelle organizzazioni: dedicare molto tempo e risorse a selezionare e trattenere i talenti e molto poco a curare i rapporti con le persone che vanno a lavorare altrove.

Un errore, se si considera che gli ex dipendenti di oggi, possono diventare i clienti, i fornitori, le opportunità, i migliori e i peggiori amici della nostra azienda, domani.

Secondo PeoplePath e l’Università Cornell, un terzo degli ex dipendenti mantiene contatti con i precedenti datori di lavoro in qualità di clienti, partner o fornitori e circa il 15% delle nuove assunzioni è rappresentato da ex dipendenti che tornano a lavorare per la precedente azienda. Non è un caso se le società di consulenza manageriali abbiano modificato le loro practices proprio per accaparrarsi un vantaggio competitivo futuro certo sfruttando la pubblicità positiva di chi va a lavorare da un’altra parte.

Analizzando le migliori prassi di programmi di offboading sul mercato, ho estrapolato alcuni suggerimenti.

GLI ADEMPIMENTI DI LEGGE NON BASTANO

Un programma serio di offboarding (le attività da svolgere quando un dipendente lascia l’azienda), non prevede solo di ottemperare agli obblighi di legge ma tiene conto della strategia, della cultura, mission e vision, delle disponibilità finanziarie, del tasso di tour over del personale, nonché dal settore in cui opera l’azienda.

Se ci pensiamo bene, il modo in cui vengono trattati i dipendenti in uscita racconta molto di un’impresa.

Per attirare i migliori talenti un’organizzazione fa di tutto per mostrare i vantaggi che si ottengono lavorando lì. Allo stesso modo quando qualcuno se ne va, anche in circostanze difficili, bisognerebbe fare in modo che il processo e l’esperienza di uscita rispecchino la cultura generale dell’organizzazione.

Pensare un programma di offboarding attento alle persone, ha un impatto considerevole sull’immagine aziendale, come ha documentato il premio Nobel Daniel Kahenman attraverso la regola del picco-fine: si giudica un’esperienza soprattutto dalle sensazioni provate nel momento di picco (fase più intensa) e alla fine, anziché ragionare sulla somma totale dell’esperienza.

Tradotto, significa che le persone prestano più attenzione al modo in cui le aziende gestiscono la fine del rapporto di lavoro che al modo in cui accolgono i neoassunti, di conseguenza i rapporti, anche se buoni, fra un dipendente in partenza e un datore di lavoro possono essere vanificati all’istante, se la separazione viene gestita male.

Quando una persona se ne va, è abbastanza normale che parlerà dell’azienda e di come è stato trattato al momento di andarsene. Se gestita male, questa fase, può essere un boomerang pericoloso per la reputazione aziendale.

PAROLA D’ORDINE: PIANIFICARE

I piani di offboarding che funzionano sono quelli pensati e a cui si dedica un’attenzione costante. E non quelli che vengono affrontati come un evento singolo. E prevedono molto di più di una exit interview e un passaggio di consegne.

I piani di offboarding che funzionano sono quelli che vengono organizzati al momento dell’assunzione. Talvolta, non dimentichiamolo, è necessario per un dipendente andare altrove per realizzare i propri obiettivi di carriera. Boicottarlo, remargli contro non è una strategia efficace nel medio-lungo periodo. Lui se ne ricorderà.

Pensate l’impatto che avrebbe ritrovarlo come cliente, in un’altra azienda: perdere un ordine, una commessa o una consulenza sarebbe quasi scontato. Vale la pena?

Spesso è necessario cambiare lavoro più volte nel corso della carriera, non è un caso che molti manager siano attratti dal tour of duty, come lo ha definito Reid Hoffman, uno dei fondatori di LinkedIn: un’assunzione la cui durata e le aspettative di crescita per il lavoratore e l’azienda sono fissate in anticipo. Partire dalla consapevolezza che nulla dura per sempre, aiuta i datori di lavoro a essere più onesti con i dipendenti e a prevenire antipatici misunderstanding, nonché utilizzare le risorse nel modo più produttivo.

Un piano di offboarding può includere, ad esempio:

–         Assegnare attività complesse ai dipendenti per permettere loro di potenziare il cv e spendersi poi altrove.

–         Attività di outskilling per aiutare le persone ad acquisire competenze che le rendano più attraenti agli occhi dei reclutatori. Il programma Career Choice di Amazon paga rette e corsi in alcuni campi di studi, mentre Archways to opportunity aiuta i dipendenti McDonald’s a prendere titoli di studio, migliorare la conoscenza delle lingue e pianificare la loro carriera con un consulente.

–         Piani di successione, utili ad assicurare continuità durante le transizioni. Un dirigente potrebbe comunicare al suo vice di avere in programma di ritirarsi fra 5 anni e il vice potrebbe realizzare di non voler attendere un tempo così lungo per salire nella scala gerarchica. In questo caso, aiutarlo a trovare un ruolo direttivo in un’altra azienda è un’ottima strategia che potrà dare i suoi frutti in futuro.

Prepararsi anzitempo all’offboarding mentre il lavoratore è ancora alle dipendenze dell’azienda, può inoltre aiutare i manager a non venir presi alla sprovvista dal ricambio del personale.

Essere aperti alla possibilità che un dipendente vada altrove può permettere di trasformare quella risorsa in un ambasciatore del marchio, una volta terminato il contratto di lavoro. E si sa quanto la pubblicità positiva sia utile.

GESTIRE L’USCITA

Lasciare un posto di lavoro può essere una esperienza complessa e dolorosa. Quando ho deciso di lasciare, per dare una spinta alla mia carriera, un mio vecchio capo fece di tutto per isolarmi dal resto del gruppo. Impedì ai colleghi di pranzare con me o fermarsi anche solo a parlarmi. Capite bene che questo non ha fatto bene né a lui, né a quel dipartimento né a quella organizzazione. A parlarne male, furono per lo più i colleghi preoccupati della reazione spropositata di un manager che si diceva aperto alle novità e ai cambiamenti. Ero la prima che osava andarsene. Inutile dire che furono in molti, nei mesi successivi, a seguire il mio esempio.

Nei negozi Apple, quando qualcuno se ne va, i dipendenti si riuniscono per applaudirlo e acclamarlo. Se l’azienda ha un programma ufficiale di offboarding, la partenza di un dipendente può essere un buon momento per accoglierlo ufficialmente nel gruppo degli ex.

Piani di offboarding possono essere applicati anche in caso di licenziamento, aiutando la persona a trovare un nuovo impiego o fornendo consulenza e altri tipi di supporto per gestire emozioni e situazione.

L’OFFBOARDING NON è UGUALE PER TUTTI

Il programma di offboarding non può essere uguale per tutti. Ogni dipendente ha le proprie esigenze e non tutti desiderano essere coinvolti nelle fasi di uscita. E questo va rispettato.

Un alto dirigente che va in pensione può aver bisogno di consulenza per orientarsi sui piani di indennità sanitarie o di pensionamento, ma anche essere rassicurato sul fatto che il suo successore sarà affiancato nel modo giusto per non distruggere ciò che lui ha costruito.

Impossibile dettagliare ogni specificità ovviamente. Ciò che va considerato è che la relazione con un dipendente non termina solo perché il rapporto di lavoro si è concluso. È qualcosa di molto più complesso e delicato. Ecco perché, in un contesto lavorativo sempre più dinamico e veloce, un offboarding ragionato e strutturato è un fattore critico di successo, una necessità strategica che non considerata può diventare un vero e proprio boomerang.

A questo punto, vi chiedo. La vostra azienda ha piani di offboarding coerenti e strutturati?

Fonti

–         Dachner A.M., Makarius, E. E. (2021). Turn Departing Employees into Loyal Alumni. A holistic approach to offboarding. HBR Magazine.

–         Kahneman D., Fredrickson B.L., Schreiber C.A., Redelmeier D.A. (1993) When More Pain Is Preferred to Less: Adding a Better End. Psychological Science: 4(6):401-405

–         Tulpule D., Upendra Pandya N. (2020). The Relevance and Significance of Employee Lifecycle Management in HRD: Business Perspectives. International Journal of Creative Research Thoughts (IJCRT). Vol. 8, Issue 9 September 2020