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COLLEFERRO: è TUTTO più COMPLESSO, è TUTTO TRAGICAMENTE BANALE

Non seguo volentieri la cronaca nera, mi lascia sempre l’amaro in bocca. La ricerca compulsiva dello scoop e del sensazionalismo, camuffata in affannosa ricerca della verità, non solletica il mio interesse. Anche i recenti fatti accaduti a Colleferro, non sono da meno. Anche se, ancor più che in altri casi, è difficile sottrarsi alla lettura, non c’è Media o Social che non ne parli, mescolando le carte con la stessa bravura di un baro professionista.

Così sfoglio qualche pagina, non ritrovandomi in quasi nessun racconto. La violenza esplicitata, non è figlia del fascismo. Anzi ha ben poco a che fare con il credo politico. In questo caso. La violenza cieca e inutile, esercitata su Willy Monteiro Duarte è un atto estremo di teppismo e brutalità. La banale violenza, per parafrasare Anna Arendt, che sembra ancor più feroce, perché troppo semplice da comprendere.

Un conto è avversare, un altro è odiare – sostiene il teologo e uomo di grande cultura Vito Mancuso – L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Al di la della dotta filosofia, la scienza è meno corretta e poco si preoccupa di cercare consensi. Pochi sanno, infatti, che le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa, per eventuali negazionisti rimando allo studio: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

IL CERVELLO CHE ODIA

Nello studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati a osservare immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

E’ emerso che la vista della persona odiata attiva particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso sostiene che “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati. Forse.

Senza contare che al concetto di bene, ognuno può dare la connotazione che vuole, proprio come hanno fatto i ragazzi di Colleferro… Ecco perchè è altrettanto difficile aspettarsi il pentimento. Alla fine quindi la politica, di qualsiasi schieramento, ha ben poco a che fare… E’ tutto più complesso, è tutto (più) tragicamente banale!

TUTTI SAPEVANO E, allo stesso tempo, NESSUNO SAPEVA

E’ potente quanto una droga.

E’ la tentazione che il diavolo sussurra all’orecchio, lasciandoci credere al libero arbitrio.
Soffoca i sensi delle Società che dichiarano di non tollerare predatori, incivili, maniaci, ladri e tiranni, ma continuano a premiarli.
Pietrifica le abitudini e le convinzioni, portandoci a trovare razionalizzazioni e giustificazioni verso i comportamenti contraddittori.

E’ il meccanismo noto come dissonanza cognitiva, messo in evidenza da Leon Festinger nel 1957.

Si verifica quando non sopportiamo l’idea di dover cambiare idea e si arresta solo quando, in un modo o in un altro e persino attraverso l’autoinganno, riusciamo a risolvere la contraddizione. Sono dissonante quando sostengo la fedeltà matrimoniale e poi tradisco il coniuge o quando dico che tutti dovrebbero pagare le tasse e poi pago in nero l’idraulico perché così mi fa spendere meno.

E’ il meccanismo del tutti sapevano e nessuno sapeva.

Delle donne che hanno protetto, così a lungo, gli abusi del produttore Harvey Weinstein: tutti sapevano. Hollywood sapeva e allo stesso tempo nessuno sapeva.

Dei professori apparentemente rivali, in realtà alleati per spartirsi la ricca torta delle cattedre universitarie in Italia: il triste caso dei concorsi truccati. Tutti sapevano. E allo stesso tempo nessuno sapeva.

Della bimba di 6 anni che si ribella a un adulto di 43 che voleva violentarla, ed è stata buttata giù dall’8° piano. E il fatto non riguarda solo una bambina e un adulto, perché altre bambine erano state violentate. Alcune di queste erano figlie della donna con la quale l’uomo viveva. Tanti sapevano. E allo stesso tempo nessuno sapeva.

Scomodiamo la storia. Degli iscritti al partito nazista di un piccolo paese tedesco che, fra il 1993 e il 1945, non sapevano cosa stesse succedendo agli ebrei, nonostante giorno dopo giorno ne sparissero silenziosamente un numero non trascurabile. Tutti sapevano. E allo stesso tempo nessuno sapeva.

E’ il gioco della politica serpeggiante fra strategie opportunistiche senza futuro e l’abitudine di posizionare nomi e stringere alleanze, prima di delineare progetti e idee.

Sapere di non sapere è quasi una scelta inconscia. E’ il cervello che lo chiede a gran voce. Non tollera l’incoerenza, così si cimenta in aggiustamenti, opera una ristrutturazione cognitiva. Se la dissonanza è debole, abbiamo margini di tolleranza, ma quanto più è forte la sensazione di incoerenza, tanto più cerchiamo soluzioni per eliminarla, ristrutturiamo i nostri pensieri, ci arrampichiamo sugli specchi pur di tornare a sentirci in pace con noi stessi. Siamo bravissimi a raccontarcela, a trovare scappatoie, spiragli etici a nostro uso e consumo, eliminando dal nostro campo visivo ciò che non ci torna. Il tutto in uno stato di coscienza non così cosciente.

Nell’illusione del non sapere che “nel mondo c’è così tanta violenza e menzogna” ci culliamo, finchè accade qualcosa: una donna che trova il coraggio di parlare, un professore che si fa “disubbiente” o un vaso che Pandora scoperchia per curiosità. E così i nostri valori tornano ad essere la nostra stella polare.

Ci piace credere che la RESPONSABILITA’ è di CHI ORDINA e NON di CHI UBBIDISCE!

Se una persona in posizione di autorità ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica di 400-volt su uno sconosciuto, TU ubbidiresti?

Non rispondere subito “no”, potrebbe non essere la risposta sincera.

Il 65% delle persone di fronte a un ordine eticamente contrario alla propria morale, vìola i propri principi per ubbidire ai voleri di un potere esterno riconosciuto, non sentendosi poi moralmente responsabile delle proprie azioni.

A studiare questa caratteristica dell’uomo fu Stanley Milgran, che iniziò i suoi esperimenti tre mesi dopo l’inizio del processo al criminale di guerra Adolf Eichmann. Lo psicologo di Yale concepiva l’esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”. La difesa dell’ex nazista si basava esattamente su questo assunto.

L’esperimento consistette nel reclutare 40 uomini (pagati 4.50$). reperiti attraverso annunci sul giornale, il cui compito era rivestire il ruolo di insegnante e porre domande a uno sconosciuto (complice nell’esperimento) in presenza di uno scienziato che rappresentava l’autorità, e punire l’interrogato con scosse elettriche crescenti (dai 30 sino ai 450 V.) ad ogni errore, in caso di risposta errata.

Il 65% dei partecipanti somministrò il livello finale di shock di 450 volt, sebbene si sentissero molto a disagio nel farlo. Qualcuno si fermò e mise in discussione l’esperimento, qualcun altro si informò sul denaro che avrebbe ricevuto in cambio. Nessuno rifiutò di dare uno shock prima che questo raggiungesse il livello di 300 volt.

Lo stupefacente grado di obbedienza ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, ma NON a sentirsi moralmente responsabili delle loro azioni, IN QUANTO esecutori dei voleri di un potere esterno. Come a dire… è responsabile solo chi comanda e non chi ubbidisce!

Persone normali, che fanno il loro lavoro e senza alcuna particolare ostilità nei confronti delle vittime, possono diventare terribili parti attive in un processo di distruzione: anche quando gli effetti si rivelano in tutta la loro gravità, poche persone hanno le risorse necessarie per resistere a una autorità. La psicologia sociale di questo secolo ci ha dato una grande lezione: a volte non è tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni” (Milgram, 1974).

E’ passato quasi mezzo secolo, ma le cose non sono poi cambiate così tanto!

IMMAGINARE il FUTURO per LENIRE LA TRISTEZZA del PRESENTE: il rammarico di perdere (per 5 minuti) un aereo…

Mario e Andrea devono prendere due diversi voli che partono dallo stesso aeroporto e alla stessa ora.

Per raggiungere l’aeroporto stanno viaggiando sullo stesso taxi ma a causa del traffico arriveranno in aeroporto 30 minuti dopo l’orario di partenza dei loro voli.

Il volo di Mario partirà in orario; quello di Andrea partirà con 25 minuti di ritardo.

Chi è due è più contrariato? Chi è il più triste?

Di fronte a situazioni di questo tipo tendiamo a immaginare scenari alternativi che sarebbero potuti accadere ma non sono accaduti. Smontando di fatto il nostro passato per ricostruire il futuro che si sarebbe potuto realizzare.

Quasi tutti rispondono Andrea: perdendo per 5 minuti l’aereo, si immagina che si sarebbe potuto prendere se solo una piccola azione fosse stata diversa, magari partendo leggermente prima…
Le Neuroscienze hanno monitorato le espressioni facciali dei II e III classificati alle olimpiadi del 1992 per valutare quanto il pensiero influenzasse i loro stati d’animo.

Hanno osservato che i II classificati con la medaglia d’argento erano meno sorridenti dei bronzi, III classificati. Questo effetto è dovuto al fatto che gli argenti erano arrivati più vicini alla vittoria, e quindi risultava molto più facile pensare e immaginare variabili della loro gara che li avrebbero portati al primo posto, facendo quindi crescere il rammarico. I bronzi, più sorridenti dei secondi classificati, erano arrivati più vicini alla loro non vittoria, quindi per loro era molto più semplice pensare agli accadimenti possibili che li avrebbero portati fuori dal podio, motivo per cui sono più sorridenti.

L’euristica della simulazione è capace di influenzare la comprensione degli eventi, degli altri e dei loro stati d’animo ma in modo disequilibrato. Nel caso dei voli persi gli scontenti dovrebbero essere entrambi i passeggeri in egual misura.

La prossima volta che perdete un treno, un aereo o qualche competizione… ricordatevi di questa trappola del pensiero per usarla a vostro vantaggio e lenire così il dolore della perdita… o della sconfitta…

Come UTILIZZARE l’effetto VON RESTORFF per AUMENTARE VENDITE e VISIBILITA’ ?

Vuoi rendere memorabile una presentazione, un prodotto o anche solo un semplice ricordo?

E’ sufficiente applicare l’effetto Von Restorff. Anche se il nome è tutt’altro che invitante è un effetto che ha ampio utilizzo non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche in azienda, tanto da essere parte integrante delle strategie di comunicazione e marketing.

IL CAPPOTTO ROSSO E IL CIGNO NERO

Noto anche come “effetto isolamento”, descrive una particolare caratteristica del nostro cervello di ricordare maggiormente quegli elementi che si differenziano dalla norma. Quando un’informazione, un dettaglio, un elemento differisce dagli altri, ha una più alta probabilità di venire ricordato da chi li osserva. E più è differenziante, più aumentano le possibilità che venga ricordato.

Un esempio di questo effetto nel cinema è il colore rosso del cappotto della bambina di Schindler’s List, un film che per il resto è quasi tutto in bianco e nero. La bimba appare durante la terribile scena della liquidazione del ghetto di Cracovia, mentre cammina lentamente in silenzio, apparentemente senza meta, fra prigionieri, uomini giustiziati per strada, soldati e mitragliatrici. Nonostante appaia solo per pochi istanti, la ricordiamo tutti in virtù del colore rosso acceso del suo cappotto.

Un altro esempio è rappresentato dalla teoria del cigno nero, la metafora che esprime il concetto secondo cui un evento raro negativo o positivo e di forte impatto emotivo è statisticamente estremamente poco probabile e per questo poco prevedibile e – quando si verifica – è una sorpresa per chi lo osserva. Il concetto è ampiamente usato nell’ambito della storia, dell’economia, della finanza, della psicologia, della sociologia, della scienza e della tecnologia. Il cigno nero è un esempio estremo dell’effetto von Restorff.

UN PO’ DI TEORIA

La scoperta si deve, nel 1933, allo psichiatra tedesco Hedwing Von Restorff che dimostrò che è più probabile ricordare degli elementi tra tanti se risaltano per colore o forma.

A suo tempo, si pensava che tale fenomeno fosse dovuto a una particolarità della capacità di attenzione. Tuttavia, studi successivi portarono alla conclusione che l’effetto Von Restorff non fosse dovuto soltanto alla variazione dell’attenzione, ma anche al modo in cui la memoria codifica le informazioni, ed è così che nasce la teoria dei processi organizzativi: secondo la quale quando una persona legge una lista, tende a organizzare nella stessa categoria tutti i prodotti simili ma cataloga in una categoria diversa (e più importante!) i prodotti differenti e questo li rende quindi più facilmente memorizzabili.

L’EFFETTO… NEL QUOTIDIANO

Un esempio è quando prepariamo la lista della spesa sottolineando con un evidenziatore i prodotti di cui abbiamo più bisogno, assicurandoci così di rafforzare la nostra memoria su un determinato elemento della lista, e riducendo le possibilità di dimenticarlo.

Prendiamo la tipica lista della spesa:

  • insalata
  • yogurt;
  • carne;
  • PANE;
  • mele;
  • formaggio;

L’oggetto che più facilmente verrà ricordato sarà “PANE”, poiché è maiuscolo, corsivo, sottolineato e scritto in un colore diverso, in una parola: diverso rispetto agli altri.

Un altro esempio avviene quando sottolineiamo i concetti chiave dei nostri appunti per farli risaltare. Questo ci aiuta a memorizzarli meglio o a ritrovarli più facilmente a una lettura superficiale.

Se invece camminiamo lungo un viale alberato dove tutti gli alberi sono cipressi, dopo aver osservato un certo numero di cipressi uguali, le cortecce visive primarie e secondarie del nostro cervello ci faranno parzialmente ignorare lo stimolo visivo ripetuto, perché considerato normale e non pericoloso; ma se all’improvviso appare un albero di pesco con i suoi caratteristici fiori rosa, ecco che il nostro cervello si rimette in allerta e ci segnala di far attenzione dal momento che nelle vicinanze c’è qualcosa di diverso, che merita la nostra analisi visto che potrebbe rappresentare un qualche tipo di pericolo (è lo stesso meccanismo che, esasperato e distorto, è alla base del razzismo). Quando torneremo a casa dalla passeggiata, quello che ricorderemo maggiormente non saranno i 30 abeti tutti uguali, bensì quell’unico albero di pesco, proprio grazie all’effetto Restorff.

…NEL MARKETING

Le applicazioni in questo ambito sono innumerevoli. Per far risaltare alcuni dettagli di un prodotto e renderlo più facile da ricordare, si può giocare su dimensioni, colore, ingombro e via dicendo. Al contempo, quanto più alto è il grado di differenziazione di un elemento dal resto, più aumentano le possibilità che venga ricordato.

Vediamo come applicarlo su un sito web. L’effetto isolamento ci insegna che dobbiamo rendere diversi gli elementi più importanti del nostro sito web. Se l’obiettivo della landing page è, per esempio, quello di far cliccare i visitatori sulla call to action (CTA) Iscriviti subito, il pulsante deve avere forma e colore diversi da qualsiasi altro elemento presente sulla pagina, così da spiccare immediatamente. Non è tutto qui: le CTA (le azioni che vuoi che i tuoi clienti compiano) devono essere ben distanziate dagli altri contenuti, i quali anzi devono essere distribuiti come se volessero convogliare lo sguardo dell’utente proprio sul pulsante da cliccare.

IN UNA PRESENTAZIONE

Una delle occasioni in cui l’effetto Von Restorff può tornare più utile è durante una presentazione, qualsiasi sia il contesto. Ogni elemento che si contraddistingue dall’ordinario conferisce un tocco memorabile a una presentazione.

Come si mette in pratica?

1) Aumenta le dimensioni del carattere in modo tale che risalti rispetto a tutto il resto. Per esempio, se i titoli delle slide standard hanno corpo 30, quando dobbiamo evidenziare un concetto importante aumentiamo la grandezza del doppio.

2) Varia la tipologia delle immagini. Se la gran parte delle slide hanno foto di oggetti, di paesaggi o elementi grafici, accendi l’attenzione inserendo, quando necessario, il primo piano di un viso. Oppure, usa le illustrazioni come filo conduttore e proponi una bella immagine per sottolineare i punti cardine.

3) Cambia lo sfondo. Questo è il modo più semplice di tutti. Utilizza un colore neutro per la maggior parte delle slide e adotta una cromia più intensa per quelle più importanti.

4) Inserisci video o frammenti di film. Quando in una presentazione sono presenti video o frammenti di un film, è possibile illustrare con molta più chiarezza un processo rispetto a una fotografia o a un’animazione. Le sequenze video devono essere brevi e integrate nella trama della storia, ovvero il filo della presentazione. In caso contrario, il video rischierebbe di distogliere l’attenzione dell’audience, allontanandolo dall’oratore. L’uso di sequenze brevi di video deve essere dunque ben scaglionato durante la presentazione per garantire livelli di attenzione alti da parte del pubblico.

L’effetto Von Restorff può essere impiegato come strumento di supporto nella vita di tutti i giorni sia per le faccende quotidiane sia in ambito lavorativo. Può essere sfruttato anche per l’organizzazione di un’azienda, soprattutto per elaborare schemi e progetti o per determinare un piano d’azione. Insomma gli ambiti sono infiniti…

PRONTUARIO per RISPARMIATORI

IMPAZIENTE? Attento, forse non sai che più CERCHI di SBRIGARTI meno TEMPO RISPARMI

Come ti comporti quando, alla guida dell’auto, benchè sei già in ritardo per il primo appuntamento della giornata, sei costretto a fermarti a causa del semaforo rosso?

A parte passare a rosso pieno, ovviamente…

Ai semafori rossi e agli stop, tendiamo a fermarci in estrema prossimità del veicolo che ci precede perché pensiamo di avere più probabilità di attraversare l’incrocio prima che scatti nuovamente il rosso e di arrivare a destino in tempi ridotti, anche se  così aumenta sensibilmente il rischio di tamponamento.

Mi spiace dirti che questa è una convinzione errata.

A studiare il fenomeno Jonathan Boreyko, un ingegnere americano, che ha ricreato la scena del semaforo su una pista di prova, dimostrando così che gli automobilisti che si attaccavano al paraurti del veicolo davanti al loro, non procedevano più rapidamente. Pur essendo appena più vicini al semaforo, in realtà impiegavano più tempo a ripartire e i due fattori di fatto, si annullavano a vicenda. In altri termini: più cerchi di sbrigarti, meno tempo risparmi. E più il rischio di incidenti si alza.

Allo stesso modo degli automobilisti, anche quando si ha a che fare con scrittura e attività creative, gli addendi non cambiano: l’impazienza non paga (quasi mai). Compresa quella delle persone che quando hanno un obiettivo diventano inarrestabili. Anche se all’apparenza pare producano molto di più.

A sostenerlo è lo psicologo Robert Boice. Per lui l’impazienza è una delle principali cause della sofferenza che si prova mentre si scrive. “Quando finisce il tempo che un determinato giorno avete destinato alla scrittura, smettere immediatamente, anche se avete l’ispirazione – si legge in How writers journey to comfort and fluency. – Il bisogno di continuare contiene già una forte componente di impazienza per non aver ancora finito, per non aver prodotto abbastanza, perché forse non si troverà mai più un momento tanto perfetto. Quando si stabilisce un orario per scrivere, è fondamentale rispettarne l’inizio e la fine, sempre”.

Affrettarsi a finire qualcosa ha un costo che bilancia o supera i benefici: si rischia di metterci più tempo, farlo peggio, essere più stanchi, o danneggiare ciò che già è stato fatto. Smettete quando il tempo scade e imparerete l’autodisciplina, continuate e asseconderete la vostra insicurezza.

Inevitabilmente mi tornano in mente le basi della comunicazione strategica: partire dopo per arrivare prima. La spontaneità, qualcuno potrebbe ribattere, in questo modo viene meno. “Ciò che viene definita spontaneità altro non è che una serie di apprendimenti divenuti acquisizioni”.

Il CLIENTE è SODDISFATTO, MA la RECENSIONE è NEGATIVA: il ruolo del Bottom Dollar Effect

Il denaro non regala la felicità, ma il modo in cui scegliamo di spenderlo sì. Mi spiego meglio: quando acquistiamo qualcosa, la soddisfazione che ne trarremo, sarà minore se avremo dovuto dare fondo ai nostri risparmi. Cioè sarà più facile rimanere insoddisfatti o lasciare una recensione negativa se, per accaparrarsi quel bene, avremo dovuto sforare il budget a nostra disposizione.

Se mi già mi segui, sai che mi occupo di processi decisionali, cioè del modo in cui il cervello si comporta e degli errori di cui cade vittima durante l’analisi delle diverse alternative a disposizione. E considerato che ogni giorno prendiamo fra le 20 mila e le 30 mila decisioni… è facile quantificare i possibili sbagli a cui possiamo andare incontro.

E in questo caso l’errore, noto come Bottom Dollar Effect, torna particolarmente utile per coloro i quali si occupano di vendita al dettaglio.

Indipendentemente dal prezzo, ognuno di noi prova emozioni negative quando deve separarsi dai propri soldi, soprattutto se si va in rosso o si svuota il conto corrente. Questo fa sì che poi sia più facile trasferire questi sentimenti negativi anche sul bene acquistato, ed essere più negativi di quanto saremmo normalmente nel giudizio, se invece avessimo risparmiato qualcosa.

Questo significa che chi vende deve essere consapevole del budget a disposizione del cliente o almeno di quanto pesa emozionalmente su di lui quell’acquisto.

LA DIMOSTRAZIONE SCIENTIFICA

A dimostrare la pericolosità di questo effetto, sei esperimenti pubblicati sul Journal of Consumer research, dove i ricercatori hanno misurato il legame tra spesa e felicità.

Ai partecipanti è stato chiesto di acquistare 3 film online usando dei crediti a loro assegnati: ogni film costava 10 crediti. Al primo gruppo sono stati assegnati 30 crediti, al secondo 50. In sostanza, coloro i quali avevano a disposizione un budget di 30 crediti, lo avrebbero esaurito con i tre acquisti; coloro i quali disponevano di 50 crediti, avrebbero potuto ancora contare sui 20 rimanenti.

Cosa è accaduto?

Dopo  aver acquistato e visto ogni film, a entrambi i gruppi è stata chiesta una recensione. E’ emerso che le persone che avevano esaurito il budget (primo gruppo) erano meno soddisfatte rispetto a quelle del secondo gruppo. In un follow-up successivo si è poi scoperto che questo effetto era ancora più pronunciato tra le persone che avevano difficoltà finanziarie: in loro l’effetto aumentava ulteriormente.

Acquistare qualcosa quando i fondi a nostra disposizione sono relativamente scarsi è più doloroso di quando si dispone di un gruzzolo più sostanzioso, ovviamente. Come dimostra l’effetto Bottom Dollar, questo elemento può influenzare notevolmente la soddisfazione e la valutazione degli acquisti da parte dei consumatori e quindi avere ricadute di reputazione ed economiche su commercianti e venditori.

BOTTOM DOLLAR EFFECT IN PRATICA

Come si traduce tutto questo in un comportamento? Quando decidiamo di destinare, ad esempio, 100 euro/mese al divertimento, se ne spendiamo 90 per assistere a una partita di calcio all’inizio del mese e 10 euro per un biglietto per il cinema due settimane dopo, sentiremo maggiori emozioni negative quando ci separiamo dagli ultimi  10  euro rispetto ai primi 90 e quindi avremo meno probabilità di goderci il film di quanto sarebbe stato se lo avessimo acquistato per primo.

5 PRATICI SUGGERIMENTI

Quindi come possono aiutarti queste informazioni e la consulenza di chi si occupa di questi temi? Ecco 5 pratici suggerimenti:

  1. La tempistica è fondamentale. La commercializzazione di un prodotto può essere più efficace se temporizzata in un periodo in cui i budget dei consumatori hanno meno probabilità di essere esauriti.
  2. Le offerte promozionali e gli sconti sono invece più efficaci quando è probabile che i clienti stiano esaurendo il budget a disposizione (Soster, Gershoff & Bearden, 2014).
  3. Cerca di capire i comportamenti dei tuoi clienti abituali. La chiave è identificare il tuo cliente target e fare una stima dell’andamento del suo budget.
  4. Fai attenzione a chiedere un feedback. Se un cliente ha speso fino all’ultimo euro nel tuo negozio, attendi a chiedere una recensione fino a quando sai o supponi sia rientrato economicamente della spesa, in questo modo eviti che rigetti attraverso il feedback/recensione il possibile rammarico per la spesa folle sostenuta e di cui ancora non è rientrato.
  5. Siamo tutti consumatori. Sapere come prendi una decisione, ti può essere di aiuto anche quando sei tu ad acquistare (e non solo vendere) qualcosa. E di conseguenza come una spesa eccessiva può influenzare la valutazione e renderti meno soddisfatto dei tuoi acquisti. Quindi come meglio distribuire i tuoi acquisti nel tempo e goderne nel modo migliore, senza rimpianti.

 

 

La rivista IDEA intervista Laura Mondino su: “COME ELABORARE STRATEGIE e SCELTE EFFICACI”

L’articolo completo è a pagina 62 e seguenti del settimanale IDEA

https://ita.calameo.com/read/001740396848086d50ec9

 

NON può SUCCEDERE a ME! NON PERCEPIRE il RISCHIO, NON SIGNIFICA essere al SICURO

C’è chi, rinchiuso in casa, è investito dall’angoscia ogni volta che è costretto a mettere il piede fuori, e chi, invece, dichiara convinto “io non mi ammalerò mai”. E chi ancora più impavido (per non dire stupido), aderisce alla sfida di leccare oggetti pubblici in barba al Covid-19 (uno di questi ragazzi ha poi contratto il virus dopo aver leccato il water di un bagno pubblico e ora è ricoverato in ospedale).

Storie di ordinaria follia, storie di ordinaria quotidianità che le Neuroscienze sanno spiegare, aiutando a dare un senso all’irrazionalità che, ancor più nei momenti di crisi, veste noi esseri umani.

In tutto il mondo, sebbene il numero di persone positive al coronavirus continui inesorabilmente a crescere, molti sembrano guardare con distacco alla pandemia, forti di poter essere immuni non solo dal virus, ma da qualsiasi avvento avverso capiti loro.

La spiegazione a questo apparente disinteresse, che non è coraggio, prende il nome di bias dell’ottimismo: la sensazione che le cose positive che ci possono accadere, siano più probabili di quelle negative. La convinzione cioè di essere meno a rischio degli altri, tutti gli altri.

E’ questa, una distorsione, una trappola in cui cade la nostra mente, per rendere più sopportabili notizie ed eventi, per mitigare paura e angoscia. E’ un modo per vivere la vita, senza temere eccessivamente la morte.

COSA SONO I BIAS

I bias sono pregiudizi, giudizi che diamo in automatico su qualsiasi questione affrontiamo e che, tendenzialmente, non corrispondono alla realtà; pertanto ci portano a interpretare in modo sbagliato gli eventi e a fare grossolani errori di valutazione. Detto in altri termini, i bias ci portano a distorcere la realtà e attuare, di conseguenza, comportamenti e scelte sbagliate.

Che il bias dell’ottimismo sia fenomeno diffuso è cosa nota ma a dimostrarlo ulteriormente sono due recenti studi: uno europeo e uno americano. Il primo ha coinvolto oltre 4 mila persone fra Francia, Italia, Regno Unito e Svizzera: la metà dei partecipanti riteneva di avere meno probabilità di contrarre il Covid-19 rispetto agli altri. Solo il 5% degli intervistati riteneva probabile un’infezione. Il secondo è stato condotto su 1.600 americani e ha mostrato che le persone pensavano che il loro rischio personale stesse aumentando ma in percentuale minore rispetto alle persone degli altri Stati.

OTTIMISMO ESASPERATO

Ma perché alcuni hanno forte questa tendenza all’ottimismo esasperato? A spiegarlo è il neuroscienziato cognitivo, professore di psicologia all’Università di Londra, Tali Sharot, che sul pregiudizio all’ottimismo ha addirittura scritto un libro. Sharot ha dimostrato che guardare al futuro ci mette di buon umore, Il puro atto di anticipare gli eventi, ci rende felici.

Senza il pregiudizio all’ottimismo, saremmo infatti tutti più tristi, senza contare che pensare positivo ci permette di credere di poter controllare il futuro e si sa che l’illusione del controllo è un’altra trappola di cui l’essere umano ha bisogno. Il cervello non ama l’incertezza, l’incognito. E colorare di rosa il domani, è un modo per allentare il peso dell’imprevedibilità.

Nella vita di tutti i giorni essere positivi rende scelte e decisioni meno pesanti, facilita la nostra quotidianità, non a caso è dimostrato che gli ottimisti hanno più successo, rispetto ai pessimisti di default. Se ogni volta che saliamo in macchina pensassimo di morire in un incidente stradale, sarebbe un incubo. Tuttavia, non si può sottovalutare l’importanza di indossare le cinture di sicurezza. I fumatori, pur conoscendo i rischi, li sottovalutano o non imputano loro la dovuta pericolosità e quindi reiterano in una abitudine tutt’altro che sana.

E’ PERICOLOSO CREDERSI IMMUNI

Avere la certezza di non contrarre il Covid-19, potrebbe impedirci però di prendere le dovute precauzioni. Non percepire il rischio, non significa non essere a rischio. Eppure molte persone non riescono a fare questo collegamento logico. Credersi immuni, potrebbe indurre a non cambiare i comportamenti. Percepire in modo corretto il rischio è il miglior mezzo di prevenzione.

La percezione del rischio però può essere difficile da modificare, ma una strategia efficace è considerare il rimanere a casa, una scelta morale, etica. Causare danni agli altri è considerato immorale e poco etico (oltre che illegale), specialmente se le vittime sono vulnerabili e bisognose di protezione, come gli anziani.

Ciò che è difficile con tutti i rischi – incluso il coronavirus – è che il potenziale danno recato dal nostro comportamento verso altre persone è poco visibile. Se pensiamo di non essere infetti, potremmo essere indotti ad avvicinarci a parenti, vicini di casa anche solo involontariamente o fare cose che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza altrui. Gli asintomatici, coloro che non sanno di aver contratto il virus, potrebbero minimizzare il rischio e mettere, loro malgrado, in pericolo gli altri.

Fare leva sull’etica personale, favorisce l’attuazione di comportamenti preventivi. E che si tratti di Covid-19, così come di altri patogeni, malattie e scelte, la prevenzione è la miglior cura. Sempre.

L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano La voce di Alba: http://www.lavocedialba.it/2020/03/30/amp/argomenti/attualita-14/articolo/coronavirus-non-puo-succedere-a-me-non-percepire-il-rischio-non-significa-essere-al-sicuro.html